Non c’è solo il liberalismo di Ferrera

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Non c’è solo il liberalismo di Ferrera

27 Aprile 2007

Sul «Corriere della Sera» del 26 aprile, Maurizio Ferrera si chiede perché i liberali tacciano sul Family Day. La sua tesi di partenza è semplice: liberalismo e laicità sono concetti prossimi, ma tutt’altro che sovrapposti l’uno all’altra. Nel dibattito sulla famiglia, perciò, si può – e si deve – entrare non soltanto da un punto di vista laico, come in genere si fa, ma anche da uno specificamente liberale. E in una prospettiva liberale, in particolare liberale anglosassone – così continua lo studioso – non si può che essere favorevoli al riconoscimento delle coppie di fatto, anche omosessuali, previsto dal progetto di legge sui Dico.

Fondamentalmente, per tre ragioni. La prima, che «il liberalismo non propone gerarchie fra modelli», e che perciò «uno Stato laico deve garantire pari opportunità di unione (legale) a tutte le persone, a prescindere dal loro orientamento sessuale». Anche perché il «riconoscimento pubblico» è spesso pre-condizione essenziale perché le scelte individuali siano rispettate dalla collettività. Il secondo motivo per il quale un liberale dovrebbe essere favorevole ai Dico, è che alle famiglie italiane bisogna insegnare a tollerare quegli individui che, pure usciti dal loro seno, scelgono percorsi esistenziali differenti da quello tradizionale. Il terzo, infine, riguarda la funzione pedagogica della legge: ossia l’esigenza che i liberali utilizzino lo Stato al fine di affermare i valori della libertà individuale e del rispetto per essa.

Le tre argomentazioni, in realtà, sono in larga misura sovrapposte. E sono tutte riconducibili al principio secondo il quale il potere pubblico non deve soltanto astenersi dall’intralciare i comportamenti individuali leciti, ma deve attivamente intervenire sulla società al fine di creare condizioni ottimali entro cui quei comportamenti possano prodursi. Non soltanto quando la società o parti della società impediscano del tutto quei comportamenti con la forza. Ma anche quando la società, o parti della società, si limitino a riprovarli.

Ora, c’è da chiedersi se la posizione adottata da Maurizio Ferrera sia l’unica liberale possibile.  Non – si badi bene – se sia liberale. Certamente può rientrare in una certa interpretazione del liberalismo, soprattutto se non la si spinge troppo oltre. A partire da un’altra interpretazione del liberalismo, tuttavia, potremmo arrivare a conclusioni alquanto diverse.

Non può esservi dubbio, da un punto di vista liberale, che un individuo del proprio corpo, fin quando non lede la libertà altrui, fa quel che vuole. Che il potere pubblico debba rimanere neutrale rispetto alle preferenze sessuali, e non solo, ma anche intervenire attivamente nel momento in cui a qualcuno sia impedito da altri di fare del proprio corpo quel che meglio crede, è dunque un principio liberale indiscutibile. Nella prospettiva di Ferrera, tuttavia, non stiamo parlando di uno Stato che, rimanendo neutrale, lasci fare. Ma di uno Stato che dia riconoscimento pubblico ad alcuni comportamenti individuali, collegando loro diritti e benefici vincolanti rispetto a terzi. Sulla base del principio per il quale la dignità dei comportamenti individuali sarebbe appunto legata al loro riconoscimento pubblico, la cui assenza perciò, soprattutto quando la società sia ancora in parte impaniata nella premodernità, rappresenterebbe una lesione dei diritti della persona.

Ora, davanti a questa posizione una parte almeno di quella cultura che si definisce liberale rimarrebbe assai perplessa. Un certo liberalismo ritiene infatti che la dignità dei comportamenti individuali non derivi da alcun riconoscimento pubblico, e che di fronte a quei comportamenti lo Stato debba rimanere effettivamente neutrale, ossia non aderire né sabotare. Certo, può accadere che determinate scelte siano malviste, e quindi per via indiretta ostacolate, dalla società, e che da questo risulti una lesione della libertà individuale. A meno che però quella lesione non sia profonda e realmente impedente – il che francamente rispetto all’omosessualità non mi pare che sia, nell’Italia di oggi, e comunque è sempre di meno col passare degli anni – quel liberalismo continua a ritenere che lo Stato debba astenersi dall’intervenire. Ossia che il suo intervento in questo caso, in termini di libertà individuale, generi più problemi che benefici.

All’interno di questo discorso, è semmai il riconoscimento pubblico del matrimonio, e soprattutto l’attribuzione alle coppie sposate di privilegi tali da comprimere i diritti altrui, a rappresentare una violazione del principio della neutralità dello Stato. Una violazione che – per quanto io ci rifletta su – non mi pare si possa storicamente e logicamente giustificare altro che con la potenzialità che la coppia ha di procreare, e di fornire alla prole un contesto educativo ragionevolmente stabile. Estendere quel riconoscimento pubblico, che già per certo liberalismo costituisce un’eccezione, a coppie la cui capacità procreativa è per lo meno discutibile come quelle omosessuali, oppure a coppie eterosessuali che non intendono tuttavia impegnarsi a una stabilità ragionevole, significherebbe perciò discriminare ulteriormente gli individui single, e violare poi il principio dell’uguaglianza – per il quale, com’è noto, situazioni differenti non debbono essere disciplinate nella stessa maniera.

Il liberalismo di Ferrera, dunque, è un liberalismo: quello per cui lo Stato deve contrastare gli eventuali vincoli che la società imponga alla libertà individuale anche quando quei vincoli non consistano in azioni oppressive o violente, ma nella riprovazione. E deve contrastarli riconoscendo i comportamenti individuali, tanto da collegare ad essi privilegi nei confronti di terzi che sul terreno storico e logico non appaiono agevoli da difendere. È un liberalismo progressista, e non per caso Ferrera menziona la tradizione liberal americana: interventista, etico, antitradizionalista. Ma di liberalismo ce n’è anche un altro. Non liberazionista ma liberale. Non progressista ma moderato. Convinto che la società non vada forzata oltre un certo limite, soprattutto quando sta già camminando spontaneamente verso una maggiore tolleranza. Convinto che i processi di procreazione e formazione dei nuovi individui rappresentino una componente delicatissima di una società liberale, sui quali mettere le mani con grandissima prudenza. Convinto che la tradizione non sia sempre e necessariamente nemica della libertà.