Obama e il suo “team di pesi massimi”
13 Dicembre 2008
Il presidente eletto Barack Obama ha nominato un team straordinario per la politica di sicurezza nazionale. A un primo sguardo, la sua scelta sembra violare certi assiomi del buonsenso comune in base ai quali inserire nel proprio Gabinetto degli individui con un elettorato autonomo, e per questo motivo particolarmente difficili da sollevare dall’incarico, circoscrive la sfera di controllo del presidente. Oltre al fatto che assegnare le poltrone di consigliere per la Sicurezza nazionale, segretario di Stato e segretario alla Difesa a persone con concezioni politiche tanto ben riconosciute potrebbe sottrarre energie al presidente per dirimere eventuali dispute tra advisers dalle volontà tanto forti.
Nel decidere per una tale configurazione, il presidente ha avuto bisogno di coraggio e di non poca sicurezza interiore, entrambe qualità essenziali per affrontare una sfida come quella di distillare ordine da un sistema internazionale in via di frammentazione. Tuttavia, in circostanze del genere, l’aver ignorato il buonsenso comune potrebbe finire per dimostrarsi una precondizione di creatività. Tanto Obama che il segretario di Stato Hillary Clinton devono essere giunti alla conclusione che il paese e l’impegno nell’amministrazione della cosa pubblica richiedono la loro collaborazione.
Chi prende alla lettera l’espressione “team of rivals”, squadra di rivali”, manca di cogliere l’essenza della relazione tra il presidente e il segretario di Stato. Non mi risultano eccezioni al principio secondo il quale la figura del segretario di Stato esercita influenza solo ed esclusivamente se è percepita come un’estensione del presidente. Il sistema di Washington, fatto di falle e allusioni diffamatorie, cercherà senza pietà di allargare tutte le crepe, anche quelle a malapena visibili. I governi stranieri, dal canto loro, cercheranno di sfruttare tali divisioni abbracciando diplomazie alternative a quella della Casa Bianca e del dipartimento di Stato. Una politica estera efficace e, al suo interno, un ruolo significativo dello State Department esige che il presidente e il segretario di Stato abbiano una visione comune dell’ordine internazionale, della strategia generale e delle misure tattiche. Gli inevitabili disaccordi dovrebbero essere risolti privatamente. Anzi, la capacità del segretario di Stato di mettere sull’avviso il presidente e di far domande e sollevare dubbi è direttamente proporzionale alla discrezione nel porre quelle domande.
Gli Affari esteri statunitensi sono uno strumento incomparabile affinatosi nel tempo grazie alle vite che si sono dedicate al suo servizio. Come ogni altro servizio di élite, non evita una certa tendenza all’esclusività. Le opinioni di coloro che non sono cresciuti all’interno dei suoi ranghi non sono sempre prese con la dovuta serietà, forse in base alla teoria che avrebbero potuto non superare l’esame del Foreign Service. I segretari di Stato sono sempre stati ostacolati da un sistema di formalità interne tanto complesso, e i presidenti nelle loro memorie si sono lamentati di quanto lente possano esserne le reazioni.
Nelle sue attività quotidiane, di fatto, il dipartimento di Stato è una sorta di grande macchina che risponde a migliaia di rapporti da postazioni in tutto il mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi, ciò ha a che fare con l’immediato e, a causa della lunga distanza, non c’è un filtro istituzionale. Tali rapporti passano per le mani di svariati vicesegretari per un’azione formale; è solo una piccola percentuale di essi che riesce a raggiungere la scrivania del segretario. E ancor più bassa è la percentuale di quelli che ce la fanno sino alla Casa Bianca. Le discussioni di natura geopolitica e strategica non hanno un elettorato. Benché un Policy Planning Council esista, le sue attività virano di frequente in uno show subordinato, non operativo e semiaccademico o, ancor più spesso, nello speechwriting.
Nessuno può mettere in discussione il potenziale di leadership del segretario di Stato Hillary Clinton nel superare i pattern più farraginosi in un negoziato grazie alla sua straordinaria presenza. In una delle sfide che più nell’immediato si troverà ad affrontare, la Clinton dovrà saper fare da guida strategica e riorganizzare il dipartimento in modo che la sua capacità di azione si amalgami con sue le straordinarie attitudini. Questo ruolo del segretario di Stato è a maggior ragione importante perché, da un punto di vista organizzativo, il dipartimento di Stato è “meglio equipaggiato” nei confronti del segretario che della Casa Bianca.
Poi, nessun altro ha mai nominato un consigliere per la Sicurezza nazionale che avesse alle spalle l’esperienza di comando del generale in pensione James L. Jones, ex capo dei Marine Corps ed ex comandante in campo delle forze armate della Nato. Sarà inevitabile che l’attività di agevolazione del security adviser si accompagnerà a un ruolo politico fondato su di un’esperienza molto vasta e praticamente unica.
L’assunto in base al quale il national security adviser dovrebbe agire come un “vigile urbano” e non come qualcuno che prende parte al processo politico è più teorico che pratico. Nessun presidente si sentirà mai in dovere di limitare le attività di advise ai diagrammi di flusso previsti dalle scuole di pubblica amministrazione. Ogni volta che un dipartimento rivendica i propri diritti burocratici nei confronti della Casa Bianca ha già perso metà della battaglia. Senza contare che la frequenza dei contatti tra il national security adviser e il presidente rende la distinzione tra “gestione” e “consiglio di natura politica” psicologicamente insostenibile.
Idealmente, il compito del consigliere per la Sicurezza nazionale è assicurarsi che nessuna politica fallisca per ragioni che avrebbero potuto essere previste ma che non lo sono state e che non si perdano opportunità per aver difettato in lungimiranza. Il security adviser fa in modo che al presidente siano sottoposte tutte le opzioni di maggiore rilevanza e che l’applicazione pratica della politica rifletta lo spirito della decisione originaria. I dipartimenti hanno la tendenza a mettere in relazione la morale interna con il successo delle proprie segnalazioni e sono inclini a interpretare le decisioni nel senso il più possibile vicino alle proposte da loro avanzate. Il ruolo del security adviser nell’insistere, se necessario, su opzioni ulteriori o più complete o su una maggior diligenza nell’esecuzione non è dunque universalmente riconosciuto.
Il security adviser ha fatalmente il vantaggio della vicinanza. Il suo ufficio dista poco più di quindici metri da quello del presidente, mentre il segretario di Stato impiega dieci minuti per arrivarci. E dunque, per norma di principio, il security consigliere per la Sicurezza nazionale lavora quasi esclusivamente su problemi dei quali dovrà occuparsi il presidente, mentre il segretario di Stato ha un gran numero d’interlocutori che richiedono la sua attenzione in tutto il mondo, alcuni dei quali a volte di non precipuo interesse per il presidente. Il segretario, inoltre, viaggia molto spesso, mentre il security adviser è praticamente in ogni momento a disposizione del presidente. La sua relazione con il capo della Casa Bianca richiede una discrezione nella condotta che non è sempre stata una prerogativa dei security advisors, me compreso.
La conferma di Robert Gates come segretario alla Difesa costituisce un importante elemento di equilibrio in quel processo. Unico tra gli attori principali, Gates si trova alla fine, e non all’inizio, del suo contributo politico. Il fatto che abbia accettato di restare con un ruolo transitorio mette in evidenza come non possa essere interessato alle manovre dettate dal senso di rivalità che accompagnano l’insediamento di ogni nuova amministrazione. L’amministrazione entrante deve averlo nominato nella consapevolezza che, quanto alle proprie precedenti convinzioni, Gates non avrebbe fatto passi indietro. È a lui che tocca realizzare il difficile adeguamento del passaggio da un’amministrazione all’altra, un tributo alla natura non partigiana della gestione del suo incarico nell’amministrazione Bush. È lui il garante della continuità, ma al tempo stesso anche la guida verso un’innovazione necessaria.
Ovviamente il metodo non può sostituire la sostanza. Tuttavia, anche con un tale caveat, il nuovo team per la sicurezza nazionale dà forza alla speranza che l’America stia superando le proprie divisioni per andare finalmente incontro alle opportunità.
© Washington Post
Traduzione Andrea Di Nino