Pensieri di un soldato nel giorno della morte di sei soldati in Afghanistan
18 Settembre 2009
di redazione
Questo non è un articolo meditato, è piuttosto la trascrizione di getto di un cumulo di pensieri disordinati che si accavallano nella mente di un soldato nel giorno in cui sei soldati hanno perso la vita in Afghanistan.
Fra questi pensieri, poche certezze e tanti, tantissimi punti interrogativi. L’unica certezza è l’amara consapevolezza di avere visto giusto in alcuni precedenti articoli sull’Afghanistan circa gli errori commessi storicamente dal mondo occidentale in quel paese e l’assurdità di impiegare militari che nel ventunesimo secolo sono costretti a sporgersi fuori dai mezzi come si faceva ai tempi della corsa delle quadrighe al Circo Massimo.
Ma si tratta di una ben magra consolazione. A parte queste poche certezze, tutto il resto è un accavallarsi di punti interrogativi. Tanti punti interrogativi. A cominciare dal “Lince”, che qualche demente ha chiamato “Santo”. Robe da inventare un proverbio nuovo: “non scherzare né coi santi né coi fanti”. Anche perché in “ralla” ci vanno quest’ultimi. E muoiono per primi.
Non erano stati sequestrati dalla magistratura, questi arnesi spacciati per miracoli tecnologici? E allora, perché circolavano? O erano stati dissequestrati? E se sì, perché? Forse perché ritenuti all’altezza della situazione? L’abbiamo visto, come sono stati ridotti. Oppure non erano Lince, come giurano tutti i telegiornali, ma erano mezzi ancora meno protetti? E i “rallisti”, poveracci, perché stavano ralleggiando? Forse perché un impiego del genere è ritenuto intelligente, sensato, costo/efficace?
Cosa ci facevano poi due Lince – o chi per loro – sulla strada di ritorno dall’aeroporto di Kabul? Perché l’automobile col kamikaze a bordo ha potuto infilarsi fra i due mezzi militari? Nessuno aveva notato una macchina che procedeva sbuffando, con la carrozzeria che strusciava a terra a causa delle centinaia di chilogrammi di esplosivo a bordo? Gli americani in Iraq avevano risolto questo problema nel lontano 2005. Dopo avere subito nel corso del 2004 l’iniziativa degli attentatori suicidi motorizzati che superavano i convogli militari, si infilavano fra due mezzi e poi si facevano saltare in aria, gli americani hanno cambiato le regole: ogni convoglio militare portava sul muso del primo veicolo e sulla coda dell’ultimo un cartello con una vistosa scritta in inglese e in arabo: “Non avvicinarsi a meno di 100 metri”. Chi si avvicinava a soli 99 metri veniva mitragliato all’istante e non ci avrebbe provato mai più. Risultato: le morti dei soldati sono scese a zero, mentre quelle dei civili (quasi tutti innocenti, peraltro) sono aumentate notevolmente. Questione di scelte: gli americani avevano deciso che la priorità doveva essere data alle vite proprie. Loro non fanno passare anima viva, noi facciamo passare cani e porci. Esisterà una via di mezzo?
È anche questione di regole d’ingaggio. Ha senso che continuiamo a fare i Tafazzi autolimitandoci con regole d’ingaggio che i terroristi non riconoscono e non rispettano? Mi torna alla mente John Pershing, il generale americano che diede, inconsapevolmente, il nome agli euromissili. Durante la guerra ispano-americana del 1898 era tenente colonnello e combatté contro gli spagnoli a Cuba e nelle Filippine. In quel lontano arcipelago il suo battaglione fu forse la prima unità militare statunitense a conoscere il terrorismo islamico. Si narra che Pershing catturò 50 terroristi islamici e inventò sul momento le “regole d’ingaggio”. Fece scavare una lunga fossa ai 50 morituri, fece macellare alcuni maiali, gettò il loro sangue nella fossa, fucilò 49 prigionieri e ne fece gettare i cadaveri nella fossa, poi li fece ricoprire con le frattaglie degli animali. Il cinquantesimo terrorista fu lasciato libero affinché andasse a raccontare il fatto. E sicuramente lo raccontò benissimo, perché per mezzo secolo nelle Filippine non si sentì più parlare di terrorismo islamico.
Ovviamente le regole di Pershing non possono essere applicate dalla coalizione nell’Afghanistan moderno, anche se è uguale a quello antico, ma piuttosto di applicare procedure autolesionistiche, meglio tornarcene a casa.
È anche questione di “caveat nazionali”, quelle nauseabonde eccezioni per cui taluni paesi accettano di mandare in teatro d’operazioni le proprie truppe, purché il lavoro sporco lo facciano gli altri. Finché la turpe parola “caveat” continuerà a trovare posto nel vocabolario dell’Alleanza Atlantica, finché non sarà espulsa con ignominia dai consessi della NATO, ci sarà sempre qualche esercito che dovrà subire perdite in più: le proprie e quelle che i codardi non hanno coraggio di subire. E l’Alleanza risulterà sempre meno coesa, sempre più divisa fra paesi coraggiosi e paesi cialtroni.
È dura scrollarsi di dosso i marchi infamanti del passato, come i cambiamenti di alleanze all’inizio di una guerra mondiale o nel bel mezzo di una seconda, è dura costruirsi la fama di paese serio e affidabile, eppure i nostri soldati lo stanno facendo ogni giorno.