Per aiutare Haiti bisogna fermare gli aiuti internazionali

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Per aiutare Haiti bisogna fermare gli aiuti internazionali

23 Gennaio 2010

È passata ormai [più di] una settimana da quando Port-au-prince è stata distrutta da un terremoto. Nei giorni a venire gli haitiani subiranno un altro trauma mentre tutti gli sforzi di soccorso cercheranno, spesso senza successo, di stare al passo con il proliferare delle emergenze. Dopo di che – cosa più disastrosa di tutte – ci sarà l’arrivo degli ingenui soldati del far bene, ciascuno con il proprio brillante piano per salvare gli haitiani da se stessi.

“Ora Haiti ha bisogno di una nuova versione del Piano Marshall” scrive Andres Oppenheimer sul Miami Herald, protestando che le centinaia di milioni attualmente promessi sono una cifra ridicola. L’economista Jeffrey Sachs propone di spendere tra i dieci e i quindici miliardi di dollari per un piano di sviluppo quinquennale. “Il modo più ovvio per Washington di coprire questo nuovo finanziamento – scrive Sachs – consiste nell’introduzione di imposte speciali sui bonus di Wall Street”. In un editoriale pubblicato sul New York Times, gli ex presidenti Bill Clinton e George W. Bush dichiarano di voler aiutare Haiti a “dare il meglio di sé”. A dire il vero, parte di questo lavoro l’hanno fatta quando erano in carica.

Tutto ciò serve a mettere a posto la coscienza di quella gente la cui debole buona intenzione è di “fare qualcosa”. È una potenziale miniera d’oro per i professionisti della sofferenza delle organizzazioni umanitarie e delle Ong. Non importa che i loro mezzi di sostentamento dipendano proprio da quella miseria che sostengono di voler fermare. E ciò permette a tutti i Jeff Sachs del mondo di atteggiarsi a santi dell’ultimo giorno.

In ogni caso, quasi tutti i possibili piani di aiuto al di là dell’immediato soccorso umanitario condurranno i veri haitiani a maggiore povertà, maggior corruzione e a un’inferiore qualità istituzionale. Ne trarrà beneficio chi ha le conoscenze giuste a spese di chi povero lo è davvero, le risorse non finiranno dove ce n’è più bisogno e l’iniziativa locale resterà tagliata fuori. E ne sarà incoraggiata proprio quella cultura della dipendenza che il paese ha un così disperato bisogno di spezzare.

Come faccio a saperlo? In questo aiuta la lettura di un rapporto del 2006 della National Academy of Public Administration utilmente intitolato “Perché gli aiuti dall’estero ad Haiti hanno fallito”. Il rapporto riassume una gran quantità di documenti da varie organizzazioni umanitarie che descrivono la lunga lista delle loro inadempienze nel paese.

Per esempio, qui la Banca Mondiale è ora in procinto di gettare altri cento milioni di dollari ad Haiti, sulla base di quanto ottenuto nel paese tra il 1986 e il 2002: “Il risultato dei programmi di assistenza della Banca Mondiale è ritenuto insoddisfacente (se non estremamente tale), trascurabile l’impatto sullo sviluppo istituzionale, e improbabile la sostenibilità dei benefit maturati”.

Perché? La banca ha notato che “i sistemi budgetari, finanziari e di approvvigionamento haitiani non hanno un funzionamento normale”, il che “rende impossibile la gestione delle finanze e degli aiuti”. Ha osservato che “il governo non ha dimostrato controllo prendendo l’iniziativa per formulare e implementare il proprio programma di assistenza”. È significativo che la banca abbia mostrato di notare la “totale discordanza tra i livelli di aiuto dall’estero e la capacità del governo di assorbirlo”, un altro modo di dire che più i donatori stranieri hanno speso per Haiti, più i fondi hanno cambiato direzione.

Ma anche questo non riesce ancora ad arrivare al nucleo del problema dell’aiuto ad Haiti, che ha meno a che fare con Haiti di quanto non abbia a che fare con gli effetti dell’aiuto stesso. “I paesi che hanno raccolto la maggior quantità di aiuti allo sviluppo sono anche quelli che versano nelle condizioni peggiori”, aveva detto l’economista keniota James Shikwati a Der Spiegel nel 2005. “Fermatevi, per l’amor di Dio”.

Prendiamo qualcosa di apparentemente semplice come l’aiuto alimentare. “A un certo punto – spiega Shikwati – il grano finisce nel porto di Mombasa. Spesso una parte del grano va direttamente nelle mani di politici senza scrupoli che lo passano poi alla propria tribù per promuovere la loro prossima campagna elettorale. Un’altra parte del carico finisce sul mercato nero, dove il grano è venduto a prezzi estremamente bassi. A questo punto i coltivatori locali possono anche gettar via la zappa; nessuno può competere con World Food Program delle Nazioni Unite.

Sachs ha attaccato questi argomenti come “scandalosamente deviati”. Ma poi Shikwati e altri come il keniota John Githongo e Dambisa Moyo dallo Zambia hanno avuto il beneficio di vedere in prima persona come l’industria degli aiuti abbia fatto naufragare le loro nazioni. Il fatto che di solito l’industria si comporti in questo modo in connivenza con gli stessi governi locali che hanno portato alla rovina la propria gente non serve che a contribuire a far sì che quelle élite restino al potere. Perpetuando il circolo vizioso di dipendenza e disonestà che per generazioni è stato la rovina di paesi come Haiti.

Un approccio migliore riconoscerebbe l’autentica umanità degli haitiani trattandoli – una volta terminati gli interventi di soccorso più urgenti ed essenziali – come persone in grado di compiere scelte responsabili. Haiti ha una delle più basse protezioni al mondo per la proprietà, come pure una delle regolamentazioni commerciali più gravose. Nel 2007 ha ricevuto 701 milioni di dollari in aiuti, dieci volte tanto quel che ha investito all’estero.

Rovesciare queste cifre è un compito che spetta solo agli haitiani, ai quali il mondo esterno può dare aiuto desistendo dal cercare di danneggiarli con eccessi di benevolenza. Se si adottasse un qualsiasi altro approccio, l’inferno che si è visitato ora in questo infelice paese arriverà a sembrarne solo il primo girone.

© The Wall Street Journal
Traduzione Andrea Di Nino