Per i media la sentenza Dell’Utri è un nuovo pretesto per condannare il Cav.

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Per i media la sentenza Dell’Utri è un nuovo pretesto per condannare il Cav.

Per i media la sentenza Dell’Utri è un nuovo pretesto per condannare il Cav.

22 Novembre 2010

Una legione di giuristi di complemento, ispirati da improbabili filosofie morali pubbliche e private, si abbatte, digrignando i denti, sulla motivazione della sentenza con la quale il sen. Marcello Dell’Utri è stato condannato in appello a sette anni di reclusione per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’.  

Ancora in nome del popolo italiano, egli è stato prosciolto da una seconda e non meno grave imputazione: quella di avere promosso un patto politico-mafioso tra lo Stato e le cosche.

Ora, dal momento che ogni pronuncia giurisdizionale viene emessa in nome del popolo, in simili frangenti è al popolo che la libera informazione democratica dovrebbe rivolgere la sua attenzione e preoccupazione, per aiutare il maggior numero di cittadini possibile, non addetti ai lavori, a comprendere, con la più corretta approssimazione, lo specifico significato e le implicazioni della sentenza.

Occorre, invece e preliminarmente, rilevare come la delicatezza e gravità dell’evento, che ha come protagonista un parlamentare della Repubblica sodale del premier Berlusconi, abbia spinto la quasi totalità dei media a saltare a conclusioni ‘politiche’ generali, per rovesciarle immediatisticamente – quanto strumentalmente – in un giudizio ‘globale’ – quanto sbrigativo – sul passato e sul presente del premier e sull’esecutivo in carica.  

Si rende necessario, allora, far luogo a una prima domanda. Esattamente, per quale delitto è stato condannato il senatore? La risposta è affidata, tutta e netta, al senso comune, opportunamente ‘costruito’ e orientato: per mafia. Ossia: per associazione mafiosa, dunque per violazione della legge penale di cui all’art. 416 bis CP.

Se, poi, ulteriormente provassimo a sollecitare i nostri beneamati cittadini, ci troveremmo ad intercettare uno stato di allegra, eppur micidiale, confusione tra la superiore fattispecie e il pur grave ‘concorso esterno’ di cui all’art. 110 CP. Il reato, appunto, in ordine al quale il senatore del PdL è stato condannato.

Ciò che, invece, la sentenza mette a fuoco e in tensione è che non si versa in tema ‘organico’ e ‘istituzionale’ di ‘mafia’, cioè di ‘intraneità’ al sistema criminale-mafioso. Bensì, di ‘concorso’. Ovvero: di contribuzione dall’’esterno’. Una precisa linea di demarcazione che pertiene non soltanto al lato giuridico-formale dell’imputazione, bensì e soprattutto al significato della posizione ed alla concreta ed effettiva responsabilità di Dell’Utri.

Si noti come solo recentemente la giurisprudenza abbia ipotizzato l’ammissibilità del ‘concorso esterno’, non casualmente qualificato come ‘eventuale’, a mente del precitato art. 110 CP. Se ne registra l’occorrenza ogni qualvolta un soggetto, di per sé estraneo all’associazione mafiosa, svolga un’attività di supporto, senza, però, entrare a farne realmente parte.

‘Concorrente esterno’, infatti – o ‘eventuale’ – è colui che non vuole prendere parte all’associazione e che l’associazione stessa non chiama a farne parte. Ma al quale essa si rivolge – essa a lui, non lui ad essa – quando attraversa una fase ‘patologica’ o una congiuntura comunque critica, tali che richiedano l’intervento di un terzo estraneo che consenta di superare l’emergenza o le criticità (Cass. S.U. 28.12.1994).

Questa la limpida statuizione delle Sezioni Unite della Corte regolatrice, in linea con la prevalente letteratura giuridica.

‘Ausiliario’ del sodalizio criminale, ma ad esso estraneo, non un suo membro organico: tale l’addebito che il libero convincimento del giudice penale di Palermo muove al senatore Dell’Utri. Certamente e purtroppo, non è la stessa cosa degli ausiliari del traffico! In ogni caso, essa attende il vaglio del giudice della legittimità.

Se non che, giunti a questo punto, risulta difficile – e sospetto – esimersi dal dovere intellettuale e morale di un’analisi specifica della asserita condotta dell’imputato, ora condannato, come emerge dal quel percorso logico-argomentativo che è la motivazione della sentenza.

La peculiare responsabilità del senatore consisterebbe nell’avere “mediato” tra le cosche e Berlusconi, ossia nell’averli posti in relazione in vista di un obiettivo. Quale? Non già l’interesse delle prime, né il suo personale, bensì il vantaggio e la tutela del secondo. Della sua tranquillità e incolumità. Rispetto alle forze oscure dell’intimidazione, della violenza e dell’aggressione. Al punto di dislocare uno stalliere a Milano, a protezione dell’amico.

E’, questo, il profilo essenziale e decisivo della res iudicanda, in quanto che esibisce uno significato dirimente di straordinaria chiarezza e precisione. Di converso, il ‘concorso esterno’, propriamente detto, suole estrinsecarsi e connotarsi come un ‘contributo’ volontario alle finalità e alle attività dell’organizzazione malavitosa.

E tuttavia, alla stregua della sentenza, nel caso che occupa, è di tutta evidenza che detto contributo si rivela come una conseguenza indiretta e accessoria, cioè non voluta in via prioritaria, dell’azione deliberata e consapevole del soggetto attivo della condotta. Ovvero: non il vantaggio delle cosche, bensì quello, allotrio, del suo amico Silvio Berlusconi – quanto alla vita e ai beni, costituzionalmente protetti, benché solo sul piano teorico – costituiva l’oggetto precipuo della preoccupazione e delle scelte del senatore.

Una verità, giuridica e processuale che risulta ora corroborata dall’esclusione, in sentenza, di qualsiasi responsabilità del senatore in ordine a patti di scambio ‘paritario’ tra mafia e Stato. Patti mirati e costruiti per il reciproco vantaggio.

Non giova ribadire che si tratta, comunque, di scelte, pur umanamente comprensibili, assolutamente improprie e delittuose, ove mai poste in essere. Epperò, scelte inequivoche, compiute in favore della sicurezza della vita di un amico. Il che rimarca una notevole distanza dall’analoga vicenda processuale ed umana del senatore a vita Giulio Andreotti.

Va da sé che, entro l’arena effettualmente democratica di uno Stato finalmente libero dal ricatto oppressivo di (onni)potenti organizzazioni criminali, il senatore Dell’Utri avrebbe potuto assai più utilmente e tranquillamente attendere ai suoi amati libri, senza doversi angosciare per la vita di chicchessia.

Considerazione ovvia, questa, che rimanda ai risultati eccezionali conseguiti nel contrasto senza quartiere a tutte le mafie, ai molteplici sviluppi, impensabili fino a non molto tempo fa e, di certo, dovuti a un più forte impegno della magistratura e delle forze dell’ordine. Avviene solo ora, chissà perché. Possibile che la grande ‘svolta’ sia  propiziata dall’esecutivo, e segnatamente dal ministro Maroni? Vade retro.

La politica e la stampa dei democrat paiono regressivamente e ossessivamente inchiodati non solo, e non tanto, a forme inquietanti di incultura etico-politica, ma anche ad una becera visione manichea della nostra vita pubblica, come di ‘alcune’ vite individuali. Sembrano, insomma, beatamente ignare del fatto che, contro le perniciose storture del manicheismo, un immenso pensatore cristiano, Sant’Agostino, combatté una delle sue battaglie più aspre e feconde, consegnando alle pagine della storia un’idea profonda e definitiva. Or sono sedici secoli.

Il buon cardinal Martini, per amore verso questo popolo, non potrebbe usarci la cortesia di ricordarlo al suo fraterno amico di spirito, ancorché non di fede, il fondatore di Repubblica? Non vorrebbe sillabargli che, se avessero ragione lor signori, laici, democrat e manichei, l’uomo non disporrebbe neppure della facoltà del libero arbitrio e della morale responsabilità? Ragione, questa, capitale, che indusse Agostino a congedarsi con veemenza dal dualismo manicheo e a guadagnare un coerente e umanissimo credo cristiano.

Bene e male non rappresentano due principi assoluti e indipendenti, separabili con un setto divisorio netto, non si contrappongono e confliggono ontologicamente. Del male Dio stesso è – secondo Agostino – non creatore, ma “ordinatore”. Perché il male, lungi dall’essere l’opposto del bene, è un deficit più o meno grave di bene. Secondo Plinio il Vecchio, “non c’è nessun male che non abbia qualcosa di buono”.

Eppure, nel deserto dei Tartari degli assoluti, il relativismo sapienziale alla Micromega almeno un assoluto mostra di conoscere: il giudizio – irrevocabile, a differenza della sentenza Dell’Utri – sulla negatività eversiva della compagine politica cui il senatore Dell’Utri appartiene. Nonché, per completezza, del ‘lato B’ dell’odierna, intera fase di storia e di cultura della società nazionale.

In fatto di mafia – è pacifico – quel deficit appare ed è maledettamente serio e la mala pianta deve essere combattuta ferocemente. Dalla ‘buona’ politica, innanzitutto. Ripeterlo è persino banale. Del pari, non sempre è possibile e, anzi, talora è illusorio credere di potere ricavare un bene da un male.

Se non che, la serietà estrema e drammatica del discorso non consente giochi linguistici. I Saviano non debbono “recitare” (Giorgio Bocca) fino a tal punto. Né debbono avvilirsi, paventando il rischio che ogni critica al loro campo di appartenenza nasconda tentativi subdoli di applicazione della ‘livella’ di Totò. Sono, e permangono, infinite le gradazioni e le vie del bene. Lo scrittore continui pure a rivendicare con orgoglio la sua diversità, anche perché ben remunerata, se non esosa – ancora Totò – e ad esercitare il suo perspicace “sguardo da nessun luogo”. Con quegli occhi smarriti, quasi incredulo. Forse per come viene usato? Legittima suspicione. Di sicuro, Giovanni Falcone, in vita, non è stato massacrato dal senatore Dell’Utri! Prego, rivolgersi dalle parti di democrat e manichei, turandosi accuratamente il naso davanti allo squallore dei sepolcri imbiancati.

Sebbene Sigmund Freud abbia formulato per loro ed affini un’apostrofe dura, “codardi per bene”, la mente corre a Bertolt Brecht: “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Qualcosa di simile pensava anche Agostino. E la considerava la perversione suprema. Absit iniuria verbis.