Per il futuro il Pdl deve superare conflitti esterni e personalismi interni

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Per il futuro il Pdl deve superare conflitti esterni e personalismi interni

04 Maggio 2010

L’intervento di Emmanuel Gout di "Farefuturo" (Lo scontro Fini-Berlusconi è un elemento di maturazione del Pdl), ospitato nei giorni scorsi su queste colonne, è ben argomentato e merita una risposta ragionata. Nell’articolo sono esaminati due aspetti, certo connessi fra di loro, ma che è bene tenere distinti: gli equilibri interni al PdL, le riforme istituzionali.

Veniamo al primo punto. Secondo Gout, negli attriti sorti tra Berlusconi e Fini conterebbero anche motivi caratteriali. Penso che ci sia parecchio di vero in questa affermazione. I fattori soggettivi non vanno sottovalutati, perché le similarità di temperamento, le sintonie emozionali pesano nei rapporti politici. Tuttavia la loro mancanza non costituisce un ostacolo insormontabile a una convivenza. In casi come questi occorre tenere a mente una battuta di Boris Ponomariov che diceva: "nel partito non ci sono amici, soltanto compagni". La frase del dirigente bolscevico, per quanto pensata nel contesto del Pcus (cioè di un partito totalitario), contiene un elemento di verità anche per un partito che agisce in un regime liberal-democratico. Ci ricorda, infatti, che le classi dirigenti, per essere all’altezza delle sfide del proprio tempo, debbono superare i personalismi.

Un imperativo che, nel caso in questione, risulta ancora più cogente. Il PdL non è nato da un’improvvisazione estemporanea di Berlusconi (il discorso del predellino), ma da un’esigenza fortemente avvertita dall’opinione pubblica. Nel corso della XIV legislatura (il quinquennio 2001-2006) l’azione del governo di centro destra è stata fortemente appannata dalla litigiosità dei partiti minori della coalizione. Il nuovo partito è sorto anzitutto per ridurre il logoramento quotidiano imposto da governi di coalizione troppo eterogenei. Ripetere questo schema con un diverso scenario, sostituendo la conflittualità interna a quella esterna, rischia di essere esiziale. Certo il PdL non è, e non deve essere, una formazione monolitica, bensì un partito plurale, nel quale convivono diverse culture e orientamenti ideali. Pure il suo autentico banco sta nella capacità di esprimere una aggiornata cultura di governo su alcuni temi essenziali (rigore in economia, immigrazione, ordine pubblico).

Ciò è ancora più vero se si pone mente al fatto che nella compagine di governo esiste già una conflittualità intrinseca. Il PdL non è il partito unico del centro destra che era stato vagheggiato in un primo momento, perché la componente leghista (che pure è schierata con il centro destra da un decennio) ha preferito coltivare il proprio orticello identitario. Personalmente non credo alle inarrestabili fortune della Lega, ma una maggiore coesione del partito di maggioranza relativa è importante anche per contrastare l’atteggiamento strutturalmente partitocratico (o se si vuole da lobby sezionale) che caratterizza la formazione di Bossi.

Passiamo al secondo punto. Quale modello tenere presente per la auspicata riforma istituzionale. Credo che parlare in astratto di modelli politici non abbia molto senso. Anche la repubblica semipresidenziale francese, che Gout reputa non convenga imitare in maniera pedissequa, non è uscita tutta armata come Minerva dalla testa del generale de Gaulle, ma è il frutto di aggiustamenti successivi. Se la Quinta repubblica nasce nel 1958, quello che si è rivelato il suo elemento caratterizzante, l’elezione a suffragio diretto del presidente, è stato introdotto solo nel 1962. Ancora più recente è l’altra riforma che, equiparando la durata del mandato presidenziale con quella dell’assemblea nazionale, ha reso quasi impossibile una coabitazione tra maggioranze diverse, verticalizzando ulteriormente il sistema. Anziché guardare ai modelli costituzionali, più produttivo è fare tesoro dell’esperienza.

Se, come sostiene giustamente Sofia Ventura nel primo numero della "Rivista di Politica", assistiamo, in tutte le democrazie occidentali, a una presidenzializzazione della politica, occorre assecondare con riforme mirate i processi che si sono verificati anche in Italia. Che lo si chiami premierato, o "sindaco d’Italia", bisogna approvare quel minimo di riforme necessarie per rafforzare e consolidare in modo non equivoco la funzione di governo, fissando un contrappeso necessario al federalismo prossimo venturo. Su questo bisogna lavorare superando i personalismi. Altrimenti le spinte disgregative, finora tenute a bada dalla atipica leadership berlusconiana, potranno, in un futuro non lontanissimo, prendere il sopravvento. I tre anni che ci separano dalla fine della legislatura non sono pochi, ma servono impegno e coesione per non mancare l’obiettivo.