Per integrare i Rom servono la loro volontà e vere politiche assistenziali

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Per integrare i Rom servono la loro volontà e vere politiche assistenziali

Per integrare i Rom servono la loro volontà e vere politiche assistenziali

26 Febbraio 2009

 

Smettiamola di girarci intorno, seguendo la linea del politicamente corretto, e diciamolo chiaramente, una volta per tutte: i Rom non ci piacciono, o piacciono a pochi di noi. Molti italiani, se potessero, sgombrerebbero oggi stesso tutti i campi nomadi presenti sul territorio e sbatterebbero fuori dai confini italiani tutti i loro abitanti. Questa soluzione, però, non è praticabile, in quanto molti di questi Rom sono cittadini italiani – o comunque europei – e hanno perciò tutto il diritto di circolare liberamente nel nostro paese. Ma se l’espulsione non è una soluzione, allora come affrontare la questione zingara?

Innanzitutto, poniamoci la domanda più importante: ma chi sono questi Rom? Contrariamente a quello che molti pensano, non sono gli immigrati provenienti dalla Romania. I rumeni e i Rom, nonostante la somiglianza dei nomi, sono in realtà due concetti completamente diversi. I primi sono gli abitanti della Romania, popolo latino, discendente come noi dagli antichi Romani. I secondi, invece, sono un gruppo etnico specifico, proveniente dall’India e giunto in Europa nel quattordicesimo secolo. Secondo le stime ufficiali, i Rom rumeni rappresentano appena il 10% della popolazione della Romania, e neppure lì sono particolarmente amati. Anche i nostri cugini rumeni, se potessero, farebbero volentieri a meno di ospitare entro i loro confini questa minoranza sgradita. E lo stesso si può dire di gran parte degli abitanti dell’Europa orientale. Sì, perché i Rom risiedono anche in Ungheria, Polonia, Russia, Repubblica Ceca, Slovacchia, ex Jugoslavia, ecc. Minoranze Rom sono presenti in tutti i paesi dell’Europa orientale e ovunque rappresentano circa il 10-20% della popolazione.

In Europa occidentale, il loro numero è significativamente minore, ma anche qui gli zingari sono distribuiti in quasi tutti i paesi. Ciò che caratterizza la stragrande maggioranza dei gruppi Rom presenti nelle diverse regioni europee è senza dubbio la scarsa integrazione. Tra tutti i gruppi etnici presenti in Europa, quello dei Rom è il meno inserito e il più discriminato. Perché?

Qualcuno potrebbe rispondere che, come tutti gli immigrati, anche i Rom devono fare i conti con la diffidenza e l’ostilità che i paesi ospitanti sempre riservano ai nuovi arrivati, almeno fino a quando questi ultimi si integrano nel nuovo contesto sociale, diventando parte integrante di esso. Forse anche i Rom stanno attraversando questa fase di iniziale ostilità, e hanno bisogno di tempo per farsi conoscere e per inserirsi nella società. Idea interessante, ma la risposta è sbagliata in quanto i Rom non sono affatto dei “nuovi arrivati”. Dai documenti risulta infatti che i Rom sarebbero giunti in Europa dall’Asia nel quattordicesimo secolo – in Italia, il primo gruppo di zingari arrivò nel 1422.

L’ostilità che molti di noi nutrono nei confronti dei Rom non dipende dunque dal loro status di nuovi migranti, in quanto i Rom vivono stabilmente in Italia ormai da secoli. Dunque perché continuiamo a considerarli “altro da noi”? Perché i Rom continuano a sembrarci così diversi, così lontani, così destabilizzanti, così pericolosi, così inconciliabili con la nostra società? Perché l’Italia è in grado di accogliere culture e popolazioni diverse, ma non i Rom, che sono qui da secoli e che hanno avuto tutto il tempo di ambientarsi? Se ponessimo questa domanda ai cittadini italiani, probabilmente nove volte su dieci ci sentiremmo rispondere che la colpa di questo mancato inserimento è tutta loro, che sono i Rom a non volersi integrare: i Rom non si inseriscono perché non vogliono farlo, e lo dimostrano con il loro stile di vita; gli zingari non si lavano, vivono in condizioni riprovevoli; non studiano, non lavorano, rubano e rifiutano sistematicamente le regole della nostra società, pur vivendo attaccati a essa come dei parassiti. In una parola, si auto-ghettizzano. E come negarlo? In fondo, se un popolo vive per secoli all’interno di una determinata società, ma non riesce a inserirsi, avrà pure la sua parte di colpa.

È evidente quindi che i Rom fanno fatica a rinunciare al loro stile di vita per integrarsi, e le ragioni di questa resistenza vanno ricercate, e risolte, all’interno delle loro comunità. I Rom devono fare un passo verso di noi, ma le loro colpe non cancellano le nostre. Forse gli zingari non si sono impegnati abbastanza per riuscire a inserirsi, ma di certo noi non abbiamo facilitato loro le cose. Anzi, le abbiamo rese difficili. Sin dalla loro comparsa in Europa, nel quattordicesimo secolo, li abbiamo sempre, sistematicamente, discriminati. Ovunque, per secoli, dalla penisola scandinava all’Italia, dal Portogallo alla Russia, li abbiamo respinti, incarcerati, torturati o uccisi. In Romania gli zingari sono stati tenuti in schiavitù addirittura fino al diciannovesimo secolo. Sebbene con il tempo la loro presenza sul territorio europeo fosse ormai divenuta una realtà consolidata, e sebbene si fossero ritagliati un proprio spazio nell’economia continentale – lavorando come artigiani, venditori ambulanti, indovini e giostrai – i Rom non riuscirono mai a inserirsi davvero, né i paesi ospitanti fecero alcunché per favorire tale inserimento.

Al contrario, l’ostilità – spesso sancita dalla legge – continuò a essere la nota dominante, fino all’apice raggiunto nel corso del secondo conflitto mondiale, quando il regime nazista avviò lo sterminio degli ebrei, degli omosessuali, dei dissidenti e anche degli zingari. Le ragioni di tale ostilità vanno probabilmente rintracciate nelle profonde differenze che intercorrono tra le società europee moderne – stanziali e regolamentate in maniera sempre più rigorosa – e un popolo nomade, sciolto, proveniente dall’India, caratterizzato da una cultura e uno stile di vita completamente diverso. Tra queste due visioni del mondo così diverse si è inevitabilmente creato uno scontro, che ancora oggi non sembra aver trovato soluzione. Ma, se spingiamo lo sguardo oltre i confini italiani, possiamo scorgere i primi segnali di cambiamento, emersi a partire dal secondo dopoguerra.

I primi a muoversi sono stati i Rom. Dopo l’aggressione subito per mano del regime nazista, alcune delle migliaia di comunità zingare sparse in Europa iniziarono a unirsi e a lavorare per migliorare la propria condizione. Nella seconda metà del Novecento, questi gruppi si sono adoperati per difendere i propri diritti contro ogni forma di pregiudizio e discriminazione e per preservare la propria cultura, ma hanno anche cercato di conciliarla con le società ospitanti, favorendo l’integrazione dei Rom. L’esistenza di questi gruppi – costituiti da persone colte, operose, consapevoli, politicamente impegnate, attaccate alla propria identità e al contempo perfettamente inserite nelle società ospitanti – dimostra che anche i Rom possono inserirsi con successo nelle società europee, ottenere degli ottimi risultati scolastici, trovare il proprio posto nel mercato del lavoro, essere eletti a una carica pubblica e diventare a tutti gli effetti dei cittadini attivi dei paesi ospitanti. I Rom possono cessare di essere dei parassiti relegati ai margini della società e diventare parte integrante della società stessa. Possono, ma devono volerlo. Se da parte loro non c’è volontà di integrarsi, la giostra non parte.

D’altra parte, questo movimento dal basso deve essere sostenuto anche dalle istituzioni delle società ospitanti. I dati dimostrano infatti in maniera inequivocabile che il processo di integrazione ha ottenuto dei risultati davvero positivi soltanto in quei paesi in cui sono state messe in atto delle serie politiche di integrazione. Seguendo le direttive dell’Unione europea, paesi come Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, Olanda e Belgio hanno attuato una serie di politiche assistenziali, basate in prima istanza sulla distribuzione di alloggi e sulla scolarizzazione. La distribuzione di alloggi gratuiti o a prezzi ridotti ha determinato un generale miglioramento delle condizioni economiche degli zingari, i quali hanno poi investito il loro denaro sul mercato del lavoro o sull’istruzione dei figli. Le politiche di scolarizzazione hanno invece permesso di abbattere i tassi di analfabetismo, consentendo ai giovani Rom di risalire la scala sociale e favorendo al contempo la loro integrazione con i coetanei non-Rom. Queste politiche sono state attuate con successo in tutti i paesi dell’Europa occidentale, grazie anche al numero ridotto di zingari presenti sui nostri territori. In Europa orientale la situazione è più difficile, proprio a causa dell’alto numero di Rom presenti sul territorio, la stragrande maggioranza dei quali vive ancora ai margini della società. Ma anche i governi dell’est hanno ormai imboccato la strada dell’interventismo assistenzialista: nel 2005 i governi di nove paesi dell’Europa centro-orientale (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Serbia, Montenegro e Macedonia) si sono formalmente impegnati a eliminare il divario tra le condizioni di vita di Rom e non-Rom.

Naturalmente, affinché queste politiche possano funzionare, è necessario che esse siano regolate da norme rigorose e stringenti. Ad esempio, in Olanda sono state concesse facilitazioni economiche soltanto alle famiglie che avessero mandato i propri figli a scuola con assoluta regolarità, attuando una politica che ha così permesso di premiare i Rom più diligenti, favorendone l’inserimento in società. Iniziative come quelle di Maroni sulla scolarizzazione obbligatoria, quindi, rappresentano solamente un primo passo positivo verso un processo di integrazione vero. Ma la severità delle norme non è sufficiente a garantire il successo delle politiche assistenziali. Ciò che davvero conta è senza dubbio la piena collaborazione dei Rom. Se le comunità zingare non si dimostrano disposte a collaborare, anche le istituzioni avranno le mani legate. Ma se i Rom hanno collaborato altrove, perché non dovrebbero farlo anche in Italia?