Perché De Gasperi ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana

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Perché De Gasperi ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana

Perché De Gasperi ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana

28 Luglio 2024

Nell’agosto del 2024 ricorreranno due anniversari significativi per la politica italiana: i settant’anni dalla morte del leader democristiano Alcide De Gasperi, scomparso il 19 agosto 1954, e i sessant’anni dalla morte del segretario comunista Palmiro Togliatti, avvenuta il 21 agosto 1964. Questi due personaggi, accomunati dalla lotta antifascista, si distinguevano nettamente per i loro progetti riguardanti il futuro del Paese. Mentre De Gasperi si orientava verso un’integrazione dell’Italia nell’Occidente democratico, Togliatti manteneva forti legami con l’Unione Sovietica.

In occasione di queste ricorrenze, il Corriere della Sera ha ospitato un dibattito fra tre studiosi: Giuseppe Tognon, presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi; Gianluca Fiocco, autore del libro Togliatti, il realismo della politica; e Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna Carta. Quest’ultimo ha sottolineato come i due leader, pur condividendo l’apertura verso i problemi internazionali, avessero visioni diverse sulla politica estera e sulle alleanze strategiche dell’Italia.

Quagliariello ha evidenziato come De Gasperi, influenzato dalla sua formazione nell’Impero austro-ungarico, abbia compreso l’importanza di ancorare l’Italia all’Occidente, scegliendo come interlocutore privilegiato gli Stati Uniti. Togliatti, al contrario, operava sotto l’influenza dell’Internazionale comunista e del regime stalinista, puntando a rafforzare il legame con l’URSS. De Gasperi, secondo Quagliariello, “percepisce da un osservatorio privilegiato l’ampiezza dei problemi che si aprono con la Prima guerra mondiale. Inoltre si distingue, nell’ambito del cattolicesimo politico italiano, per non aver vissuto l’esperienza di estraneità alle istituzioni del Regno conseguente al conflitto tra Stato e Chiesa determinato dalla fine del potere temporale dei pontefici. Togliatti vive l’esperienza dell’Internazionale comunista all’ombra di Stalin e della sua visione fondata sul primato dei rapporti di forza. Entrambi sono attenti alla politica estera, ma ciò li divide irriducibilmente”.

Nel dopoguerra, “c’è un’intesa tacita tra i leader della Dc e del Pci ma questa posizione viene declinata dai due protagonisti in maniera differente,” aggiunge il presidente di Magna Carta. “De Gasperi assicura la continuità dello Stato e anche di una linea economica, preoccupato di rassicurare le parti della società che avevano aderito al fascismo. Togliatti punta sulla centralità della forma partito come strumento per recuperare alcune frange che si erano riconosciute nel passato regime: per quanto riguarda i giovani, è il percorso descritto da Ruggero Zangrandi nel libro Il lungo viaggio attraverso il fascismo. De Gasperi e Togliatti vedono nell’antifascismo un importante fattore di solidarietà tra le forze impegnate nel processo costituente, ma sono consapevoli che non ci si può fermare ad esso nell’immaginare la nuova Italia”.

Nonostante una temporanea collaborazione, le divergenze dunque emersero chiaramente, soprattutto sulla gestione dell’economia e della politica interna, come durante la crisi del 1947, quando De Gasperi scelse una linea economica rigorosa ispirata da Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d’Italia. Quagliariello ha anche sfatato la vulgata secondo cui la formazione del primo governo senza il PCI e il PSI sarebbe stata dettata dagli Stati Uniti, chiarendo che la decisione fu autonoma e basata su considerazioni interne.

“Bisogna smentire una leggenda. Parlo della tesi secondo cui la decisione di formare un governo senza Pci e Psi sarebbe stata presa per obbedire a un’ingiunzione rivolta a De Gasperi nel corso della sua visita negli Usa. In realtà all’epoca la strategia americana di contenimento del comunismo era in incubazione, ma non si era ancora definita. Del resto la Casa Bianca non aveva alcuna garanzia che De Gasperi sarebbe stato ancora il suo interlocutore in Italia. Il primo governo senza le sinistre si regge solo grazie ai voti dei liberali e dei qualunquisti, in una situazione di estrema fragilità”. L’adesione al Patto Atlantico e le sfide poste dalla questione di Trieste sono esempi delle difficoltà che De Gasperi dovette affrontare. Togliatti, invece, cercava di mantenere l’egemonia comunista a sinistra, anche dopo la rottura con il PSI di Nenni. Le loro visioni divergenti si riflettono anche nella controversa legge elettorale del 1953, difesa da De Gasperi come un tentativo di stabilizzare il sistema politico italiano.

“La legge del 1953 non era affatto una truffa,” spiega Quagliariello. “In caso contrario dovremmo dire che la più recente legislazione elettorale è stata un furto con scasso. La soglia per far scattare il premio era il superamento del 50 per cento, un traguardo che in realtà fu raggiunto, come è stato accertato, tenendo conto dei voti ingiustamente annullati. De Gasperi e il ministro dell’Interno Mario Scelba lo sapevano, ma non chiesero un riconteggio nella consapevolezza delle tensioni che ne sarebbero derivate. De Gasperi aveva una concezione istituzionale che occhieggiava al modello britannico: riteneva che il presidente del Consiglio dovesse poter governare il sistema dall’alto, contando su una maggioranza coesa. Per lui il partito non ha un ruolo centrale e su questo polemizza con il leader della sinistra democristiana Giuseppe Dossetti. Fino a un certo momento De Gasperi riesce a imporre la sua visione”.

“La prima legislatura è molto più feconda delle successive sul piano legislativo. Produce la Cassa del Mezzogiorno, il piano Vanoni, la riforma agraria, la nascita dell’Eni. Viene avviata la modernizzazione del Paese. Ma il sistema rimane bloccato, con una maggioranza obbligata, mentre nella Dc si sviluppano i giochi delle correnti. Per giunta sul piano elettorale, tra il 1951 e il 1952, si crea una situazione che ricorda la Germania della repubblica di Weimar. Avanza la sinistra e soprattutto crescono monarchici e missini, che conquistano la guida di città importanti come Napoli, Bari, Lecce. Il prestigio di De Gasperi non basta più ad assicurare la stabilità dell’esecutivo, un problema lasciato irrisolto dalla Costituzione. E la crescita dei partiti estremi minaccia la tenuta della democrazia. La legge del 1953 è una risposta a queste difficoltà. Senza dubbio fu un errore prevedere un premio così ampio: se fosse stato più contenuto, sicuramente alcuni dissensi, penso a quello del liberale Epicarmo Corbino, sarebbero venuti meno. De Gasperi volle un premio ingente soprattutto per rafforzare i socialdemocratici di Giuseppe Saragat e favorire in prospettiva il distacco dai comunisti del Psi di Nenni. Ma quel calcolo fallì”.

“La coalizione centrista usci battuta perché si era affievolita la sindrome anticomunista del 1948 e non si era formato uno spirito di coalizione che rivendicasse con orgoglio le realizzazioni del governo. Ciò determinò la successiva sfortuna del centrismo, che fu una grande stagione politica, interpretata invece sempre, non solo dai suoi avversari, come una fase di passaggio. De Gasperi ne pagò il prezzo: lui che aveva unito i cattolici in un partito e aveva garantito una continuità virtuosa, depotenziando la stagnazione fascista senza rigettarne le realizzazioni positive (pensiamo all’Iri), paga tutto questo con una sostanziale cesura tra i suoi governi e il resto della storia repubblicana”.

La riflessione di Quagliariello si conclude con una critica alla scarsa attenzione che viene riservata oggi alla figura di De Gasperi, un leader che ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana, nonostante le complessità e le sfide del suo tempo. “A un settantesimo non è un centenario, ma colpisce che quest’anno siano usciti 24 libri su Giacomo Matteotti e uno solo su De Gasperi”.