Più libri più liberi, Briasco (Minimum Fax): “Basta trionfalismi, serve un pit stop. Ripartiamo dai narratori delle aree fragili”
09 Dicembre 2024
Anche quest’anno siamo tornati a Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria di Roma. Della Fiera con le sue criticità, dei narratori di provincia e della letteratura delle aree fragili italiane, abbiamo parlato con Luca Briasco, direttore editoriale di Minimum Fax.
Briasco, com’è andata questa edizione di Più libri più liberi?
Guardi, quest’anno, senza troppi giri di parole, non è andata come speravamo. E non possiamo nemmeno giustificarci dicendo che è colpa del calendario, con l’8 dicembre che cade di domenica e nessun ponte ad aiutare gli editori. La realtà è che Più libri più liberi comincia ad avere un problema strutturale: di programma e di gestione degli spazi. Per fare un esempio, molti slot chiave di questa edizione sono stati occupati da autori che non erano rappresentati dagli editori presenti alla manifestazione. Si tratta ovviamente di nomi di grande richiamo, ma perché non coinvolgerli in omaggi ai tanti, grandi autori i cui libri sono acquistabili nei vari stand? Non mi sono piaciuti di conseguenza neanche i trionfalismi dei comunicati ufficiali, che contrastano in modo quasi brutale con un malumore che non è solo il mio, ma quello della stragrande maggioranza degli editori presenti in fiera, con i quali ho parlato a lungo.
Verrebbe da dire, severo ma giusto.
Quando le cose non funzionano, è sempre un’occasione per riflettere. Su ciò che va rivisto, migliorato, ripensato. Non siamo a Torino, dove la città si identifica completamente con la fiera. A Roma manca quel legame. Bisogna creare contenuti nuovi, un programma coerente e ragionato. Serve, soprattutto, ascoltare chi questa fiera la vive e ci lavora, noi editori, non qualche sigla istituzionale. Un momento di verifica è necessario, e lo chiederemo.
Ma i lettori quest’anno sono arrivati?
I lettori “forti”, quelli appassionati e consapevoli, sono venuti. Ma è mancata la ‘massa critica’ dei lettori occasionali, quelli che si avvicinano agli stand, fanno domande, scoprono libri. Questo è un problema.
E gli autori? Se guardiamo alla narrativa non romanocentrica?
Minimum Fax ha intrapreso da tempo un percorso significativo in questa direzione, strettamente legato all’uso e alla valorizzazione della lingua. Abbiamo scelto di dedicarci a una letteratura radicata nelle aree interne, piccole realtà spesso marginali, dove il dialetto diventa strumento di profondità narrativa. Quest’anno a Più libri più liberi abbiamo presentato Graziano Gala, un autore originario di Tricase, oggi residente a Milano. Le sue opere sono profondamente ancorate a un mondo interno, segnato da degrado e complessità, e restituito attraverso la forma del romanzo in versi. Il suo Popoff ha una cadenza versificata, con inserzioni dialettali. Potrebbe sembrare una scelta editoriale rischiosa o fuori dagli schemi consueti. Ma per noi non è mai stato un dubbio: scommettere su un’opera del genere è stato naturale, e i risultati ci stanno dando ragione.
Allora cos’è che non va?
Ciò che mi preoccupa è la tendenza, diffusa in certi ambienti editoriali, a trattare il lettore con una sorta di condiscendenza, quasi si presupponesse una sua incapacità di apprezzare contenuti più complessi o ricercati. È una visione che considero offensiva e limitante. Si pensa troppo spesso che il lettore sia facile da influenzare, poco esigente, che non sia pronto a confrontarsi con linguaggi nuovi o forme espressive più sofisticate. Ma ogni volta che abbiamo scommesso su autori del genere – penso a Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino, che ha vinto il Premio Campiello – i lettori hanno risposto, dimostrando di essere ben più attenti e aperti di quanto si creda.
Osare l’impossibile, cantava qualcuno…
E’ indispensabile. Solo scommettendo sulla curiosità e sull’intelligenza dei lettori possiamo mantenere viva la ricerca editoriale e sfuggire al rischio dell’omologazione. Se ci si limita a seguire modelli preconfezionati, non solo si perde il gusto della sperimentazione, ma si perdono anche i lettori. Invece facendo scommesse come queste, si costruisce un dialogo autentico con chi legge, un dialogo che continua a evolvere nel tempo.
Gala è salentino, e la sua opera richiama alla memoria quella direttrice dei narratori delle “aree fragili” del nostro Paese, tracciata un tempo da Celati o Tondelli. Esiste ancora oggi questa linea narrativa?
Mi capita spesso, nel mio lavoro, di imbattermi nelle aree, come le chiama, fragili. Quei territori a rischio spopolamento che però custodiscono una vitalità culturale straordinaria. Penso, ad esempio, alla Sardegna, dove i festival più importanti, quelli con il pubblico più numeroso, non si svolgono a Cagliari, ma nell’interno, in luoghi lontani dalle grandi città. O a una città come Matera, geograficamente complessa e difficile da raggiungere, che però si distingue per un impegno eccezionale nella promozione della lettura.
Cosa bolle in provincia?
Ricordo un evento a cui ho partecipato a Matera, invitato come traduttore per raccontare il lavoro che svolgo dall’inglese. C’erano più di cento persone, animate da una vera e propria fame di cultura, di libri, di sapere. Una scena difficile da immaginare, ad esempio, in una città come Roma, dove iniziative simili attirano una manciata di spettatori. A meno che non insistano su aree periferiche, dove la partecipazione è spesso molto maggiore: basti pensare al lavoro fatto da Christian Raimo come assessore alla cultura nel Terzo Municipio di Roma. Fuori dalla Capitale, potrei farle altri esempi: il Flip, il Festival della Letteratura Indipendente a Pomigliano d’Arco. Il lavoro di piccoli editori come Marotta e Cafiero, degli editor e delle agenzie letterarie indipendenti. Oppure le opere del napoletano Davide Morganti o di Alfredo Palomba, che contribuiscono a far crescere un movimento culturale radicato in questa parte meno visibile del nostro Paese. Sono esempi preziosi di come queste aree, troppo spesso considerate periferiche, possano diventare fulcri di creatività e fermento culturale. È un processo che merita di essere sostenuto, incoraggiato e, perché no, preso a modello per rigenerare il rapporto tra editoria e territorio.
Insomma, l’anno prossimo non la troveremo a Roma?
Lei scherza, ma ci stiamo orientando con decisione verso questa geografia letteraria. Dobbiamo fare tutto il possibile per assecondare e, perché no, valorizzare i fenomeni emergenti. Si tratta di un vantaggio reciproco. Quante copie si vendono in quei festival, in quegli eventi? Probabilmente più di quante ne riusciamo a vendere a Roma. Il nostro ruolo è portare la cultura là dove viene richiesta, dove c’è una fame autentica di libri e storie. Alla fine, è una situazione in cui tutti vincono: i lettori, che trovano uno spazio per nutrire la loro passione, e noi editori, che scopriamo nuovi bacini di lettori, persone attente e coinvolte. Se non lavoriamo per questo, allora quale senso avrebbe tutto l’impegno che mettiamo nella nostra professione?