Qual è la pecca della Dottrina Trump

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Qual è la pecca della Dottrina Trump

Qual è la pecca della Dottrina Trump

27 Maggio 2025

Donald Trump è tornato trionfante da un redditizio viaggio in Medio Oriente. Il suo discorso principale in Arabia Saudita è stato sviscerato da analisti e commentatori, miliardi di dollari sono passati di mano, e il presidente ha fatto ritorno negli Stati Uniti con il sorriso, pronto ad affrontare i problemi della sua democrazia travagliata. Rich Lowry, direttore della National Review, ha commentato sia il viaggio che l’intervento di Trump.

“Il presidente Donald Trump ha pronunciato a Riad un discorso importante, che forse si avvicina più di ogni altro alla definizione di una ‘dottrina Trump’ per il suo secondo mandato. È stato il contraltare diretto al discorso inaugurale del secondo mandato di George W. Bush. Per dirla in modo semplicistico, ciò che per Bush era la libertà, per Trump è il denaro. Non è del tutto corretto, però. Il discorso aveva dei valori — ma non erano quelli consueti, come la responsabilità del governo o la dignità umana — bensì la prosperità e la pace. Beni universalmente riconosciuti, certo, ma che Trump ha posto sopra ogni altro — soprattutto sopra la democrazia — imprimendo loro una connotazione tutta personale. Se Bush voleva esportare la libertà, Trump vuole esportare grattacieli scintillanti”.

Non c’è nulla di sbagliato in questo. Come ha osservato lo stesso Trump, negli ultimi decenni gli sforzi occidentali per esportare la democrazia hanno prodotto successi parziali nel migliore dei casi, fallimenti clamorosi nel peggiore. Ciò che però Trump non riconosce è che i tratti che ha tanto ammirato nel Golfo — le torri di vetro, il golf, il lusso — sono il frutto di due elementi che hanno ben poco a che vedere con i governi locali: la garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti e il petrolio. Detto ciò, ci sono luoghi peggiori in cui vivere di Dubai, Doha o Gedda. E ci sono dottrine peggiori di quelle che mettono al centro la pace e la prosperità.

Il problema della visione del mondo di Trump — la sua cosiddetta “dottrina” — non è fare affari con i potenti del Golfo. Su questo Trump eccelle. Il vero problema è trattare con nazioni che non condividono le sue priorità. I nostri avversari — Russia, Cina, Iran e altri — apprezzano certamente il denaro,  e i loro leader ne hanno rubato a piene mani ai rispettivi popoli, nascondendolo in giro per il mondo. Ma il denaro non è il loro fine ultimo: ciò che perseguono è il potere, al servizio di un’ideologia. Sono, per mancanza di termine migliore, dei veri credenti. E nel mondo secondo Donald J. Trump, persone del genere semplicemente non esistono. Per lui, ogni uomo ha un prezzo.

Adam Smith ha demolito il mercantilismo trumpiano ben prima che il luccichio dei jet privati del Qatar incantasse il presidente. La concezione di Smith, secondo cui “la ricchezza di una nazione non consiste nella quantità d’oro e d’argento posseduta, ma nella quantità di beni e servizi prodotti e scambiati”, è — con buona pace di Trump — al cuore del progetto economico americano. Thomas Jefferson esprimeva idee simili riguardo i mali del mercantilismo (di cui il colonialismo era servitore) nel promuovere le virtù della libertà umana, da lui ritenuta inseparabile dalla vera ricchezza di una nazione.

Inutile dire che non siamo più nell’America di Jefferson. E va bene così. Uno dei frutti preziosi della nostra libertà è l’evoluzione del pensiero e delle forze politiche. Trump incarna, in fondo, proprio questa evoluzione. Ma il limite della sua dottrina è che essa non è in grado di rispondere alle sfide del nostro tempo — almeno per quanto riguarda la sicurezza nazionale. Nella visione utilitaristica di Trump, le giustificazioni di Vladimir Putin per le sue invasioni dell’Ucraina (la prima e la seconda) sembrano avere una loro logica: la Russia si sentiva minacciata dall’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda e preoccupata per le minoranze russofone nei paesi post-sovietici.

Se fosse vero, basterebbe un accordo che escluda l’Ucraina dalla NATO e che protegga i diritti dei russofoni. Ma queste sono solo scuse, e neppure originali — Hitler le usò prima di lui — che nascondono la reale motivazione di Putin: “L’Ucraina — ha detto Putin — non è solo un Paese vicino. È una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale.” Se ancora non bastasse, ecco un’altra sua dichiarazione: “Il crollo dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del secolo. […] Per la nazione russa, è stata una tragedia autentica. Decine di milioni di nostri connazionali si sono ritrovati oltre i confini del territorio russo.”

Parafrasando Margaret Thatcher su un altro leader russo, Putin non è un uomo con cui si possa fare affari. È un uomo in missione divina per ricostruire l’Impero Russo. E non si può comprare. Lo stesso vale per la Repubblica Islamica dell’Iran, fondata su princìpi che nulla hanno a che vedere con la ricchezza. Certo, i chierici al potere amano caviale e lustrini, e sanno che il popolo iraniano ne vorrebbe di più. Per questo, se c’è da fare qualche concessione tattica per mettere da parte qualche milione, non si tirano indietro.

Ma questi compromessi sono solo deviazioni momentanee da un progetto ideologico ben più profondo. Chi conosce l’Iran — me compresa — sa che il compito primario del regime è l’autoconservazione. Ed è vero, perché il regime incarna la missione per cui l’Iran moderno è stato creato nel 1979. Come spiegava l’Ayatollah Khomeini: “L’Islam è un sistema completo, il cui scopo è instaurare il dominio di Dio sulla terra e preparare la via alla Sua sovranità universale. La Repubblica Islamica non è semplicemente un governo, ma un sistema fondato sulla giustizia e sulla guida divina”. “Giustizia divina” – PIL.

E naturalmente anche il Partito Comunista Cinese — ben lontano dall’essere il partner commerciale vagheggiato da Trump — è un apparato ideologico inflessibile, devoto alla “completa riunificazione della Cina”: in altre parole, alla conquista e sottomissione forzata di Taiwan, e al controllo del Mar Cinese Meridionale, che secondo Xi Jinping “è territorio cinese fin dai tempi antichi”. Per decenni, il PCC ha potuto godere dei benefici del commercio globale mentre rafforzava la propria dittatura. Nel suo primo mandato, Trump ha segnato la fine di questa ascesa sovvenzionata dall’Occidente. Ma ora, nel secondo mandato, sembra convinto che il problema con Pechino sia soprattutto il deficit commerciale, non una minaccia alla sicurezza nazionale.

La fiducia incrollabile di Trump nella sua capacità di gestire anche i più pericolosi nemici non è solo vanteria. I risultati del suo primo mandato — dalla deterrenza verso la Russia alla campagna di massima pressione sull’Iran, dagli Accordi di Abramo alla svolta europea su Pechino — sono stati sostanziali, persino rivoluzionari. Come ha scritto Matt Continetti, Trump è uno che “pensa in grande”, dà valore alla tenacia, lavora sodo, e resta un outsider, anche al secondo giro. Il suo sogno non è certo quello avere una cattedra al Council on Foreign Relations. In politica estera, Trump ha tutte le ragioni per credere che i saggi di Washington e gli accademici non capiscano nulla, non abbiano successi da vantare e siano prigionieri di schemi obsoleti che impediscono vittorie vere — come un vero accordo con Russia, Iran o Cina. Non è una tesi stupida. Ma, in definitiva, pur cogliendo la natura della nostra classe diplomatica, ignora l’ideologia dei soggetti stranieri.

Trump ha già affrontato questo limite con Kim Jong Un nel primo mandato. Il leader nordcoreano ha dimostrato di non essere un interlocutore affidabile. Così Trump ha cambiato obiettivo. E ci sono segnali che, se il suo sforzo di mediazione tra Russia e Ucraina dovesse fallire — come pare stia accadendo — passerà oltre anche stavolta. Lo stesso avverrà con l’Iran se Teheran rifiuterà le generose offerte di Steve Witkoff. Dio sa quanto anche i predecessori di Trump abbiano fallito nel confrontarsi con il “tridente” di sfide che oggi lui affronta. Ma il fatto che Trump si ritiri non significa che i problemi svaniscano. Putin vuole tutta l’Ucraina, e forse anche un paio di alleati NATO. La Cina punta a Taiwan, al Mar Cinese Meridionale e al dominio dell’Asia. L’Iran vuole la bomba. Queste non sono minacce lontane: sono minacce a pochi mesi o anni. Trump spera di rinviare lo scontro. Ma è improbabile che i suoi interlocutori lo assecondino.

E c’è un’altra insidia: Putin, Xi e Khamenei credono di aver capito come prendere Trump. Se nel primo mandato lo consideravano un venditore e cowboy, questa volta hanno ricevuto il messaggio, da figure come JD Vance e Pete Hegseth, che il cowboy è andato in pensione. In altre parole, sebbene Trump detesti le loro mire espansionistiche, non è convinto che spetti a lui affrontarle. Con l’America fuori scena, le ambizioni di Russia, Cina e Iran sembrano meno rischiose. Questo è il pericolo insito nella nuova Dottrina Trump: essa sottovaluta i nemici, ignora la forza dell’ideologia, e incoraggia l’avventurismo degli Stati canaglia. Ma c’è anche un’altra lezione che Trump rischia di dimenticare: nessun conflitto è mai davvero evitabile per gli Stati Uniti, nonostante tutti gli sforzi per tirarsene fuori. Chiedetelo a Woodrow Wilson. A FDR. A Eisenhower, Kennedy, Johnson. A Carter, Bush, Clinton. A George W. e a Barack Obama. I nemici, prima o poi, ci trovano. E di solito è meglio essere noi a trovarli per primi.

Tratto da WTH / The Trump Doctrine Fatal Flow. Tutti i diritti riservati. Traduzione a cura di Ada Ranieri.