Quale svolta liberale? Veltroni non può che essere statalista
13 Marzo 2008
In questo inizio di campagna elettorale si
fa un gran discutere della supposta somiglianza tra i due principali partiti
contendenti, e in particolare di come i loro programmi si assomiglierebbero,
con tanto di accuse a Veltroni di aver plagiato il “vecchio” programma
Berlusconiano. Al di la delle schermaglie politiche, l’effettivo convergere su
alcuni punti importanti è un fatto che deve indurre a seria riflessione.
L’elemento più interessante è che anche la sinistra italiana sembra
(finalmente) essersi resa conto della necessità di riforme liberali, le quali
devono necessariamente consistere in una riduzione del carico fiscale (“affamare
la bestia”) e in un conseguente restringimento dei compiti dello Stato. Certo,
questa presa di coscienza non è una cosa di cui ci si possa lamentare e il
fatto che tutte le più importanti forze politiche riconoscano la necessità di
un certo tipo di riforme deve naturalmente far ben sperare.
Tuttavia
quando si guarda alla possibilità che possa essere la sinistra a realizzare
quelle riforme la questione si complica e il problema va inserito in un quadro
storico e culturale più ampio. Infatti ciò che si deve fare oggi in Italia non
è tanto una riorganizzazione della macchina statale, pure necessaria, ma una
drastica riduzione degli interventi statali in un grandissimo numero di
settori. Questa operazione non è semplice, e deve sostanziarsi almeno in due
passaggi.
Il primo
è smettere di pensare che lo Stato, al di là delle buone intenzioni, sia sempre
capace di agire per realizzare il bene pubblico, e accettare l’idea che molto
spesso la società sia più capace di realizzare quel obiettivo senza
l’intervento statale. Questo anche perchè in un sistema in cui lo stato
interviene meno e lascia più spazio (e più reddito disponibile) ai cittadini è
normale aspettarsi che sorgano tutta una serie di associazioni e “corpi
intermedi” capaci di sostituirsi allo Stato e di svolgere parte dei suoi compiti,
senza però dover oliare e ingrassare un’ampia burocrazia.
Il
secondo passaggio è la consapevolezza che una tale radicale inversione di
tendenza non può avvenire con la “concertazione”, ma deve necessariamente
passare per lo scontro con tutti quegli attori “para-politici” che sono parte
importante del processo decisionale nella società italiana. La politica
italiana infatti non appare bloccata e incapace di decidere solo a causa
dell’esistenza di maggioranze eterogenee, cosa che pure pesa moltissimo, ma soprattutto
dal fatto che quando si deve prendere una decisione la prassi è sentire tutti e
concedere qualcosa a ognuno, e se proprio si rifiuta la prima volta poi si
aggiusta tutto dopo il primo sciopero.
La vera
“rivoluzione” italiana allora dovrebbe consistere non solo nell’avere
maggioranze omogenee, ma soprattutto nell’avere un governo capace di rompere
equilibri corporativi radicati e nicchie di privilegio enormi e diffuse. Tutto
questo può avvenire solo con l’abbandono dello stato a favore del mercato, e dunque
con lo smettere di investire la politica di compiti che non le dovrebbero
appartenere. Ora una tale “rivoluzione” non può appartenere alla cultura
politica di un partito di sinistra, per quanto riformista. E questo perchè
nell’ideologia democratico-progressista le soluzioni “collettive” sono considerate
sempre disinteressate e dunque, in linea di principio, sempre migliori di
quelle private, le quali sono (mal) sopportate solo perchè è difficile negarne
una maggiore efficienza. Inoltre i vari decision
maker, a cominciare dai sindacati, cooptati nel processo decisionale, sono
una naturale necessità nel momento in cui si ritiene appunto che la migliore
soluzione sia quella che può essere trovata con l’agire politico.
Tuttavia
Veltroni e i suoi collaboratori fanno riferimento alle amministrazioni Clinton
e Blair per mostrare come economie estremamente dinamiche possano
tranquillamente guidate da governi di sinistra, e a quelle due esperienze hanno
dichiarato di ispirarsi. Veltroni, lanciando il programma del PD, ha dichiarato
che «l’alternativa oggi è netta: da una parte la ripetizione di un passato
conosciuto, dall’altra l’investimento sul futuro. Fu la scelta fatta dagli
americani quando uscirono dal reaganismo scegliendo Bill Clinton. Fu la scelta
degli inglesi quando, uscendo dal lungo periodo del thatcherismo, diedero
fiducia a Tony Blair». Un osservatore acuto come Michele Salvati è arrivato a
definire quello di Veltroni «un programma largamente blairiano per un paese che
non ha conosciuto la Thatcher», ma ha anche ammesso che «nessuna sinistra
europeo- continentale può fare un’operazione alla Thatcher».
Ora il
problema consiste proprio in questo: Blair, Clinton e lo stesso Zapatero, hanno
potuto fare, e bene, quello che hanno fatto (ossia una ricostruzione e razionalizzazione
del sistema di welfare, tale da non intralciare lo sviluppo economico) solo
perchè erano stati preceduti dalla Thatcher, da Reagan, da Aznar. La Thatcher
in particolare dovette condurre una battaglia durissima non solo per
liberalizzare un’economia diventata negli anni fortemente corporativa, ma
anche, e parallelamente, per recidere quell’abitudine che aveva reso
impossibile prendere decisioni politiche senza consultare prima quelle che in
Italia si chiamerebbero le “parti sociali”. Fare queste cose non può essere nel
dna della sinistra e molto semplicemente, anche se ne riconoscesse la
necessità, essa non le potrebbe fare se non al costo di snaturarsi
completamente e di rompere con quei settori della società che da sempre ne
rappresentano non solo il bacino elettorale ma anche i compagni di viaggio in
una visione del mondo e della politica. E questo non solo a livello nazionale,
ma anche in quel “livello locale” che pesa sempre di più nella vita quotidiana
dei cittadini e nel quale si solidificano i più importanti interessi e rapporti
di potere interni hai partiti. Se Veltroni volesse davvero cambiare questo
stato di cose allora la soluzione non sarebbe tanto andare da soli (o quasi…)
alle elezioni, ma direttamente cambiare il nome al partito, cambiare la sua
collocazione politica e farne un partito liberale di tipo anglosassone, cosa
che non mi sembra sia all’ordine del giorno.
Ma forse
anche questo non basterebbe. Infatti una rivoluzione quale quella di cui stiamo
parlando non è mai indolore e può essere realizzata solo quando si presentano varie
circostanze. Una in particolare è che un tale cambiamento sia condotto,
soprattutto in assenza di un sistema istituzionale che dia poteri molto forti
al premier, da un outsider della politica o almeno da qualcuno che non sia
ingabbiato, e non sia circondato da persone ingabbiate, in una rete di poteri e
interessi. Ora Berlusconi non può certo più essere definito un politico di
“primo pelo”, ma certamente non gli si può rimproverare di aver fatto carriera
nella burocrazia di un partito e neanche di dover fare i conti con una
burocrazia indipendente e con la quale dover trattare la propria sopravvivenza
politica. In questo senso, per quanto possa apparire blasfemo sostenerlo, un
partito con un po’ di vallette ed ex presentatori televisivi potrebbe essere
molto più funzionale al nostro scopo di un partito composto di politici maturi
e di intellettuali pensanti e critici.
Invece le
liste che Veltroni ha presentato in questi giorni vanno incontro almeno a un
duplice problema. Il primo è che molti candidati, come dimostra anche
l’abbondante presenza di mogli, parenti e segretari di alcuni “big”, fanno
parte di gruppi di potere interni ben consolidati. Questi gruppi vorranno e
dovranno realizzare ciò che hanno promesso ai loro elettori – e non mi sembra
che stiano promettendo una riduzione del ruolo dello Stato – e per farlo non si
periteranno troppo a mettere alle strette il segretario-presidente. Il secondo problema
è che tra gli eletti ci saranno imprenditori e operai, precari e pensionati, cattolici
e “laicisti”, pacifisti e militari, ecc ecc. certo una cosa bella, che
rispecchia la pluralità della nostra società, ma che avrà come logica
conseguenza il fatto che bisognerà dare un contentino a tutti, e quando non c’è
accordo sulle idee e sui valori va sempre a finire che per non scontentare i
compagni di viaggio si moltiplicano i compiti e la spesa pubblica.
La
politica veltroniana insomma, come al solito, si dovrà occupare un po’ di tutti
e dare un po’ a tutti, con buona pace di chi ritiene che lo stato debba fare
meno. Ecco che il PD tutto potrà essere, ma non un partito di outsider o
persone disposte a ridurre il ruolo dello stato. Quanto a Veltroni ricordiamo
che venne eletto in parlamento per la prima volta nel 1987, a 32 anni e – come si
sa’ – non comunista, nelle liste dell’allora PCI. Se allora egli provenisse
dalla burocrazia del partito o da una missione laica in Africa non lo sappiamo,
però su questa seconda ipotesi non siamo disposti a scommettere molto.
Forse a
convincere Veltroni a pensare di poter veramente riformare lo Stato e
rilanciare l’economia è stata la sua esperienza di sindaco. Però un sindaco ha
la possibilità di agire da solo o con pochi collaboratori, di guardare in
faccia i cittadini e proporre soluzioni ai loro problemi, che sono problemi
assai concreti e tangibili. Inoltre un sindaco, almeno se la città è Roma, può
anche rilanciare l’economia concedendo più licenze ai ristoratori e
organizzando grandi eventi mediatici in stile para-holliwoodiano. Non sappiamo
se Veltroni l’abbia fatto bene, ce lo dirà il voto dei romani, certo è che
amministrare una città non è come amministrare un grande paese, e soprattutto pensare
di fare il Blair senza aver avuto prima una Thatcher non sembra una cosa
granché logica e, ahinoi, l’Italia di oggi assomiglia disperatamente
all’Inghilterra pre-Thatcher.
È
difficile dire se il centrodestra sarà in grado di percorrere sino in fondo la
via della Lady di ferro, tuttavia sarebbe assolutamente illogico aspettarsi che
quella strada possa essere imboccata da chi ha ideologia politica e una visione
del mondo completamente diversa. Insomma Signor Sindaco, se davvero vuole
costruire per l’Italia un welfare razionale, più equo e che non intralci la
crescita economica, le suggeriamo, almeno per questo giro, di passare la mano e
magari di impiegare i prossimi 5 anni a leggere la copiosa e articolata
letteratura su come è nato in Inghilterra il New Labour di Blair e su come mai esso
abbia potuto e saputo ricostruire e razionalizzare il welfare. Sperando che
intanto ci sia una Thatcher che faccia sino in fondo il proprio dovere.