Quanta dignità c’è nella scelta di morire?
17 Giugno 2011
di Emma Carr
La sensazione che si provare quando si viene messi di fronte a una malattia degenerativa o terminale non ha mai costituito una questione particolarmente urgente per me, fin quando non è stata diagnosticata la sclerosi multipla a un membro della mia famiglia. Sebbene la mia speranza è che tale argomento di non divenga in futuro una questione ultradecennale, dal momento che un mio caro è alle prese con un male degenerativo, inevitabilmente mi pongo delle domande, anche scomode, e cerco di riassestare i miei iniziali punti di vista.
Il dibattito attorno al suicidio assistito (molti, me compresa, preferiscono il termine “morte assistita”) è assolutamente vasto e spesso colpisce comprensibilmente un nervo scoperto. Di sicuro non ci sono punti di vista giusti o sbagliati, dato che la materia costituisce una questione assolutamente personale. Questa è la linea di pensiero che ha deciso di seguire un discusso documentario andato in onda alcuni giorni fa sulla BBC2, dal titolo “La scelta di morire”, caratterizzato dal fatto che il filmato è stato realizzato da Sir Terry Pratchett, affetto da una forma di Alzheimer allo stadio iniziale.
Sir Terry, come molte persone disabili, voleva investigare all’interno del mondo-tabù della morte assistita, per scoprire quali sono le reali possibilità di scelta che ha un individuo quando decide che per lui la vita è diventata troppo insopportabile per poterla continuare. La risposta è che, per chi vive nel Regno Unito, le opzioni sono veramente ristrette. Se una persona non volesse farsi accudire dalla propria famiglia − o nel caso non ne avesse una in grado di farlo – e nutrisse la speranza di evitare di finire i propri giorni in una casa di cura, le sue possibilità sono estremamente complicate. Allo stato attuale, il suicidio assistito è illegale in Gran Bretagna, nonostante nel 2010 l’82% dell’opinione pubblica si dichiarò favorevole a concedere a un dottore l’autorizzazione a mettere fine alla vita di un paziente affetto da una malattia incurabile e penosa, su richiesta del paziente stesso. Se un cittadino britannico fosse intenzionato a finire la sua vita ma avesse bisogno di assistenza per farlo, sarebbe obbligato a recarsi in Svizzera, dove l’organizzazione Dignitas può fornire a un individuo i mezzi per una morte sicura e relativamente poco dolorosa.
Nel documentario della scorsa notte, Sir Terry Pratchett e le telecamere della BBC hanno seguito il multimilionario Peter Smedley, 71 anni, affetto da una malattia al sistema deambulatorio, fino alla clinica della Dignitas, per filmarlo mentre assumeva una dose letale di barbiturici. Dopo due visite mediche approfondite, a cura di medici e infermieri, i “pazienti” della Dignitas vengono condotti in un appartamento, che non apparirebbe fuori posto in uno showroom di Ikea, per trascorrere gli ultimi momenti di vita. L’appartamento è confortevole e dimostra l’impegno che ci è stato messo per renderlo il più possibile accogliente, ma di certo non è la propria casa. Per me questa rappresenta la parte del documentario più triste e che più mi ha provocato rabbia. Un individuo non dovrebbe avere il diritto di trascorrere i suoi ultimi momenti circondato da quelli che sono le persone a lui più care, in un ambiente familiare, con accanto le foto della propria famiglia? Non sono un esperta di diritto e non vorrei entrare nel merito dei vincoli legali che riguardano la questione, ma da cittadina britannica vi sono indotta, dal momento che uno svizzero ha il diritto all’autodeterminazione mentre io no.
Il documentario ha affrontato critiche inevitabili, sin da quando la BBC ha annunciato di volerlo mandare in onda. Le accuse sulla possibilità che il candore e la veridicità del documentario possano condurre a un “suicidio per emulazione” fallisce completamente il tentativo di comprendere come l’argomento andrebbe trattato in televisione. Riguardo alla realizzazione del documentario, Sir Terry ha commentato: “Non abbiamo provato a renderlo affascinante. Non abbiamo costruito nulla attorno”. E quando gli è stato chiesto cosa l’abbia spinto a realizzare questo film, ha risposto: “Il governo inglese ha sempre girato le spalle su questo argomento e io mi vergogno che il popolo britannico sia costretto a trascinarsi in Svizzera, con spese considerevoli, per ottenere il servizio che richiedono”.
Sia che riteniate che il documentario della BBC2 sia stato una “propaganda a favore del suicidio”, sia che pensiate che invece abbia mostrato la semplice realtà delle decisioni che un malato terminale e la sua famiglia devono prendere, è evidente che questo è il momento di iniziare a discutere concretamente della questione. Discutere se un malato terminale possa avere il diritto di finire la sua vita configura indubbiamente una situazione non facile e, come ripetono Peter Smedley e sua moglie nel documentario, molto poco britannica. Io temo che, se non cogliamo l’opportunità di porre la questione in cima ai pensieri dell’opinione pubblica e dei nostri politici, allora l’occasione di discutere di autodeterminazione e delle libertà personali andrà sprecata.
(Tratto da The Commentator)
Traduzione di Stefano Fiori