Quei valori per cui vale la pena vivere
19 Gennaio 2023
“Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”. La frase è del giudice Rosario Livatino, assassinato dalla mafia il 21 settembre del 1990. Le parole del magistrato sono riemerse ieri sera durante la trasmissione della Terza rete dedicata alla sua figura, “Caro Marziano”, del regista e autore conosciuto con il nome Pif. Siciliano a sua volta. Durante una serata piena di spazi televisivi dedicati all’arresto di Messina Denaro, il super latitante della organizzazione criminale meglio conosciuta con il nome di mafia.
Scriveva nel suo libro “Cose di cosa nostra” Giovanni Falcone, poco prima di morire, che uno dei punti di forza della mafia è quello di non essere percepita, di non far capire qual è il suo potenziale distruttivo. Lo diceva un siciliano che aveva combattuto incredibilmente il fenomeno mafioso nella sua terra. La conferma la si trova in una celebre intervista fatta da un grande giornalista, stavolta piemontese, Giorgio Bocca, al generale dei Carabinieri Dalla Chiesa. Dalla Chiesa parla della solitudine del militare mandato in Sicilia per combattere la mafia. Definisce la mafia come “l’aria che cammina”. Che non si vede e si fa fatica a percepire, quindi a combattere.
Eppure il boss Messina Denaro in questi giorni sta inondando i teleschermi, con il suo arresto, le polemiche, le prese di posizione, a ogni ora del giorno. Un grande evento mediatico. Dopo 30 anni di latitanza. Un fiume in piena, fatto di tante parole, frasi, dichiarazioni. Già, la mafia non esiste, non viene percepita. Quando se ne parla lo si fa con fastidio, a meno che non vi sia un grande evento mediatico. E, allora tutto cambia. Un omicidio eccellente. Un arresto seppur tardivo. Eppure la mafia è fatta di storie, racconti, lotta di magistrati e forze dell’ordine.
Bisogna allora, per così dire, fare chiarezza. Dissipare, togliere quell’aria che cammina. Una specie di nebbia fitta. Confusione, polemiche che si irradiano attraverso i potenti mezzi di comunicazione, ieri come oggi. Diceva sempre Giovanni Falcone che la mafia è fatta di uomini. Capi o no, ci sono le loro storie personali. Brutali, incredibilmente violente. E poi ci sono le immagini.
Ricordo l’attentato e l’uccisione di Giovanni Falcone. La strage di Capaci. La morte di sua moglie, magistrato a sua volta, Francesca Morvillo e degli uomini della sua scorta. L’anniversario è stato nel maggio del 2022. La strage, 30 anni fa. I funerali in una Palermo blindata, una specie di stato d’assedio. Le parole rotte dal pianto, dalle lacrime, della moglie dell’agente Schifani, Rosaria Costa. Un paese sotto shock. Ascolti del Tg1 mai raggiunti. La gente incollata alla tv. 30 anni fa. Non era un evento mediatico, era un racconto di quello che era accaduto. Di quello che stava succedendo. Gli insulti alle autorità in una Palermo praticamente isolata. Il tempo fece la sua parte.
Già, la mafia non esiste. Deve tornare nell’ombra. Non essere percepita. Ma c’era un altro magistrato che non si sarebbe arreso. Quel giudice amico di Giovanni Falcone. Quel Paolo Borsellino. Non passarono che pochi mesi. Un altro attentato. Morirono lui e gli uomini della sua scorta. Altre immagini. Altre polemiche, dichiarazioni su cui si impose giustamente quella dell’ex responsabile del pool antimafia, il magistrato Antonino Caponnetto. Ma ormai il pool era stato sciolto, dopo essere stato ideato da Rocco Chinnici, ucciso anche lui dalla mafia.
Disse Caponnetto attraverso una intervista andata in onda in tutti i telegiornali. “Me li hanno ammazzati tutti, me li hanno ammazzati tutti”. Nelle redazioni all’epoca si parlava apertamente di un prossimo attentato attentato al giudice Borsellino. Era solo questione di tempo e la mafia sarebbe stata di nuovo percepita. L’aria che cammina tornò a volare in alto prima di piombare di nuovo con ferocia con altra violenza.
Vere e proprie stragi. Come quelle degli anni ’92 e del ’93. Si parlò apertamente di accordi segreti con apparati dello stato. La nebbia torna a cercare di impedire di capire, vedere, interpretare. Eppure è bene riflettere. Perché come accade spesso la Storia, la grande Storia e le storie, il racconto di tanti forse hanno qualcosa da insegnare. Anche in questo caso, anche se si parla di mafia, di morti ammazzati, processi, arresti eccellenti.
La figlia del boss Messina Denaro non vuole più sapere nulla del padre. Lo ripetono alcune trasmissioni televisive. Non ne voleva sapere quando era ragazza a scuola e non ne vuole sapere nulla adesso che è stato arrestato. Lo ripetono i conduttori televisivi. Intervistano persone che sono state accanto al boss. Ci sono anche altri giornalisti che intervistano i rappresentanti delle forze dell’ordine che la mafia l’hanno combattuta e vinta in prima persona, che forse hanno qualcosa da dire, in prima persona.
Ieri sera Andrea Purgatori ha mandato in onda su La7 un’intervista al famoso ufficiale dei Carabinieri, meglio conosciuto con il nome di Capitano ultimo. Ultimo ha arrestato con i suoi uomini il boss Totò Riina. Anche lui latitante da anni ma che, come Messina Denaro, era in Sicilia. Dice l’ex leggendario capitano dei carabinieri, “mi ricordo lo sguardo del mafioso Riina al momento dell’arresto, incredulo, spaventato”. Si ferma e poi riprende. “Ma io non potevo dimenticare quante morti aveva causato quel boss della mafia”. Ed è forse questa la notizia vera da ricordare, da dare, quando si parla di mafia.
La storia del Capitano Ultimo è lì. E’ stata raccontata, molto probabilmente lo sarà ancora, come è giusto che sia. Il coraggio in un’impresa che sembrava impossibile da realizzare. L’arresto di uno dei più pericolosi boss della mafia. Ieri il Capitano ultimo aveva il volto irriconoscibile, in una trasmissione televisiva, perché tale deve rimanere ancora oggi a distanza di tanti anni, quando dice che la mafia può essere sconfitta.
La mafia è fatta di uomini, lo diceva lo stesso Giovanni Falcone. Ma c’è un altro insegnamento che può venire da questi anni di lotta al fenomeno criminale. Quello dei valori. Quello di credere in qualcosa per cui vale la pena vivere e lottare. Valori di cui è ricca la stessa storia della Sicilia. In primo luogo quello della fede. Un papa di nome Giovanni Paolo si recò ormai alcuni anni fa in Sicilia. Era il 9 maggio del 1983 quando il Pontefice polacco parlò nella Valle dei Templi di Agrigento davanti ad una folla oceanica. Non parlò, tuonò più volte, come sapeva fare in momenti particolari, importanti. Tuonò contro quell’odioso fenomeno conosciuto in tutto il mondo con il nome di mafia. Le sue parole risuonano ancora oggi. Rivolto ai mafiosi disse ripetutamente un’unica parola. “Convertitevi”.
Livatino non era un papa, era un semplice servitore dello stato nel quale credeva. Un magistrato. Lo chiamavano “il giudice ragazzino”, ad essere buoni si potrebbe dire che questa era una frase pronunciata col sorriso. Ebbene, quel giudice ragazzino oggi è il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica. Rosario Livatino fu ucciso dalla stidda, una organizzazione mafiosa. Forse basterebbe dire che fu ucciso da dei criminali il 21 settembre del 1990. Era magistrato nella città di Agrigento. Gli spararono più volte mentre era a bordo della sua utilitaria. Stava andando a lavorare, aveva solo 37 anni. Già, il giudice ragazzino.
Livatino era stato impegnato nell’Azione Cattolica. Profondamente religioso, di quella religiosità che parla di vita vissuta, di valori, di impegno e coerenza. I genitori si chiamavano Vincenzo Livatino, impiegato comunale e la madre Rosaria Corbo. Aveva studiato, si era laureato nella sua Sicilia fino a diventare procuratore. Viveva con i suoi genitori.
Ieri sera il conduttore Pif ci ha mostrato la casa dove Rosario Livatino viveva con i suoi genitori. E’ entrato in punta di piedi in quello che oggi è diventato un museo. Un museo di vita. Semplici letti, mobilio. La raccolta di fumetti che lui tanto amava. Semplicità. Viveva con i suoi genitori, appunto. Valori, famiglia, rispetto per i suoi, suo padre e sua madre. Pif ha detto che questi valori i mafiosi non possono capirli. Li ha chiamati più volte bestie. Ma quella semplice casa, quei valori, sono ancora lì in Sicilia. Valori per cui ha vissuto Rosario Livatino. Valori per cui vale la pena vivere.