Regole d’ingaggio, soluzione o problema?
23 Luglio 2010
Carlo Pellion conte di Persano fece una carriera “al contrario”. In soli cinque anni passò dagli altari alla polvere: ministro della marina nel 1862, senatore del Regno nel 1865, comandante della flotta italiana nel 1866, degradato per inettitudine nel 1867 in seguito alla disfatta della marina italiana il 20 luglio 1866 nella battaglia di Lissa. Mentre il comandante austroungarico Wilhelm vonTegetthoff si limitò ad impartire un unico, chiarissimo e lapidario ordine ai suoi marinai dalmati (“Deghe soto, fioi!”), le italiche procedure erano ben più complicate e farraginose. Si narra che il Persano possedesse un documento che nelle intenzioni dei cervellotici estensori doveva servire ad aiutare i comandanti delle navi del neonato Regno d’Italia a decidere quale reazione adottare in seguito ad una certa azione nemica. Era un documento che prevedeva quattordici possibili azioni nemiche e, di conseguenza, altrettante reazioni italiane. Sennonché, fra quelle quattordici azioni, gli austroungarici misero in pratica la quindicesima, lui rimase spiazzato e non seppe come reagire. Risultato: una sonora batosta. Ebbene, l’ammiraglio Persano non lo sapeva, ma quelle azioni e reazioni un secolo più tardi sarebbero state chiamate rules of engagement, regole d’ingaggio, e sarebbero diventate famose con l’acronimo RoE.
Oggi il manuale militare britannico “Glossary of Joint and Multinational Terms and Definitions” le definisce “Direttive diramate dalle competenti autorità militari per specificare le circostanze ed i limiti entro i quali le forze militari possono iniziare e/o continuare il combattimento con le forze contrapposte”, ma le RoE apparvero nella terminologia dell’Alleanza atlantica già all’inizio della guerra fredda, durante le esercitazioni della forza mobile della NATO. Queste attività addestrative condotte annualmente negli stretti baltici o fra i ghiacci della Norvegia comprendevano una fase di deterrenza e una di combattimento. Quest’ultima aveva luogo in caso di fallimento della prima. In particolare, nella fase di deterrenza, in cui si sbandierava la solidarietà della NATO per indurre il nemico a desistere dai suoi bellicosi propositi, a ogni azione nemica corrispondeva una nostra reazione. Ma questo avveniva con uno spirito completamente diverso da quello di Persano in quanto l’atteggiamento era attivo, non reattivo. E poi le RoE servivano a graduare la nostra risposta con una precisa escalation, nell’ottica di evitare un conflitto armato vero e proprio, cui si ricorreva solo se la deterrenza falliva. E di solito falliva sempre, ma solo a scopi addestrativi, per dare modo ai comandi e alle truppe di esercitarsi nello scenario peggiore possibile.
In seguito, dopo la fine della guerra fredda, la NATO ha fatto scuola e anche l’ONU ha copiato il sistema delle regole d’ingaggio, cosa che poi hanno fatto anche altre organizzazioni internazionali e le coalizioni a geometria variabile. E qui è nato il grande equivoco: un artifizio addestrativo proprio della guerra fredda è diventato uno strumento operativo del post-cadutadelmuro. Può funzionare? Sì, ma soltanto se un’aspirina usata con successo contro il mal di testa può risultare utile anche nel caso di una frattura. Di questo equivoco paghiamo le conseguenze tutti i santi giorni in tutti i teatri operativi.
Equivoco o meno, sembra che oggi non possiamo più fare a meno delle RoE. Per redigerle, i possibili approcci sono sostanzialmente due, uno positivo e uno negativo: il primo consiste nel prevedere tutto ciò che si può fare, il secondo è stabilire tutto ciò che non si può fare. Il secondo approccio, curiosamente, risulta molto più permissivo del primo, perché una volta stabilito ciò che è vietato, tutto il resto (ed è il più) risulta consentito. Ma il fatto di avere regole d’ingaggio precise e vincolanti non sempre è un vantaggio, perché le forze militari impegnate in operazioni multinazionali si ritrovano ad avere serie limitazioni. Le direttive, infatti, sono ambigue e spesso ipocrite e le regole sono talvolta pubblicamente dichiarate, cosa che va a vantaggio della trasparenza e soprattutto del nemico.
E non ci sono solo problemi interni, ma anche esterni. Da questo punto di vista due sono i grossi limiti delle regole d’ingaggio. Uno è legato alle moderne guerre e l’altro al moderno nemico. Il primo interrogativo che ne deriva è se hanno ancora senso le regole d’ingaggio in un mondo in cui le guerre non vengono più dichiarate, non cominciano più con atti formali iniziali e sorgono anche all’interno di sovranità nazionali o di realtà circoscritte. E inoltre: fino alla guerra fredda le nostre regole d’ingaggio venivano implicitamente riconosciute e legittimate anche dall’avversario; oggi, invece, hanno ancora senso le regole d’ingaggio quando si fronteggia un nemico che non ha regole proprie, né tantomeno rispetta le nostre?
Di solito a questi interrogativi ci autorispondiamo in modo obbligatoriamente affermativo. Le regole d’ingaggio, infatti, sono tipiche del mondo occidentale, libero e democratico e gli unici che non le hanno sono i terroristi. Proprio per questo, se il mondo occidentale e democratico non le applicasse, non sarebbe più tale.
Oggi, pertanto, non c’è operazione al mondo (sia essa sotto l’egida dell’ONU, della NATO, della UE o di una coalizione) che non abbia le sue regole d’ingaggio, anche se hanno parecchi limiti. Innanzitutto si rivelano pericolose anche per colui che le applica, che può venir chiamato a rispondere delle sue azioni in tribunale. E poi le alleanze come la NATO hanno regole comuni per tutti i paesi membri, concordate fra tutti i governi, mentre nelle coalizioni si cerca di uniformare le regole mentre in sostanza ognuno viaggia per conto proprio.
In Iraq ad esempio ogni paese della coalizione aveva le sue, approvate dai singoli governi, e spesso le regole cambiavano con il cambiare dei governi e con il mutare della minaccia, non solo nell’atteggiamento verso il possibile nemico, ma anche nei riguardi della popolazione civile. Tanto per fare un esempio, gli americani inizialmente hanno subìto attentati kamikaze da parte di vetture imbottite di esplosivo che prima superavano le autocolonne militari e poi si facevano esplodere, oppure da parte di autobombe che si facevano superare dai convogli per poi farsi esplodere. In seguito, questo non è accaduto più perché è stato proibito a chiunque di avvicinarsi a meno di cento metri da un convoglio militare, né dalla parte della testa né dalla parte della coda. Chi non si atteneva, veniva ucciso, anche se non era al corrente delle regole. Questa decisione ha fatto sensibilmente aumentare il numero delle vittime civili irakene innocenti e ignare, ma ha fatto drasticamente scendere il numero delle vittime militari americane. Per cinico che possa sembrare, il rapporto costo/efficacia è stato ritenuto vantaggioso e soddisfacente.
In tutto questo si inseriva la vicenda di chi non solo non osservava le regole ma ignorava anche le convenzioni di Ginevra (si pensi agli abusi nel carcere di Abu-Ghraib), per non citare la storia delle “compagnie private di sicurezza” che non agivano secondo le regole e sparavano su tutto ciò che si muoveva.
In Afghanistan, poi, la psicosi del politicamente corretto ha prodotto vari casi di esagerazione, spesso di vera e propria aberrazione, talvolta di tragicomicità, come quando il Segretario Generale della NATO Jaap De Hoop Scheffer nel luglio 2007, allo scopo –peraltro sacrosanto- di ridurre i danni collaterali (leggasi uccisioni di civili innocenti prendendo di mira i terroristi) ha proposto di impiegare bombe più piccole, di minore calibro e con una ridotta quantità di esplosivo. Altro esempio: le regole d’ingaggio in vigore non consentono ai soldati della missione ISAF di catturare talebani; questi possono essere trattenuti per non più di 24 ore in attesa della polizia afgana che, per codardia o inettitudine, si presenterà dopo due giorni nella migliore delle ipotesi, o mai nella maggior parte dei casi. Anche l’amministrazione Obama è ossessionata dal buonismo: le regole volute dalla Casa Bianca consentono ai militari americani di rispondere al fuoco solo se il nemico è ben visibile e con l’arma in mano, ma se il talebano spara da dietro un cespuglio o dall’interno di un edificio, i militari USA non sono autorizzati a rispondere al fuoco ma soltanto a fare da bersagli.
Inoltre, una recente disposizione dell’avvocatura generale americana impone che per interrogare un sospetto terrorista questo debba essere inviato presso un centro specializzato entro 24 ore oppure rilasciato. Di solito l’individuo viene rilasciato, cosa che gli consente di continuare a delinquere e di ammazzare altri soldati americani. Ma il colmo dell’aberrazione è stato raggiunto quando i cervelli dell’entourage obamiano hanno inventato la cosiddetta “Courageous Restraint Medal”, una decorazione da assegnare a chi, benché sotto tiro, rinuncia a rispondere al fuoco: farsi uccidere senza reagire è preferibile al rischio di colpire per sbaglio un innocente. Non si sa quante di queste decorazioni siano state assegnate, ma è facile immaginare che siano state tutte concesse alla memoria. Tutte queste storture rendono felici solo i talebani. Finora l’Afghanistan era noto come “la tomba degli Imperi”; diventerà anche la tomba delle regole d’ingaggio?