Romano e Calabresi non dovrebbero spacciare il mito del merito

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Romano e Calabresi non dovrebbero spacciare il mito del merito

19 Giugno 2011

Il ministro Brunetta per una battuta a Maurizia Russo Spena, figlia del parlamentare comunista, si è preso insulti da tutta la sinistra, da Mario Calabresi direttore della Stampa e da Sergio Romano, che nella sua rubrica di lettere sul Corriere ha pubblicato indignato la lettera di un precario laureato. In Italia si è precari se si lavora a tempo determinato e si ritiene di non essere retribuiti secondo il titolo di studio. Il problema è  sentito soprattutto dai precari universitari  come la Russo Spena, che vorrebbero l’immissione in ruolo, come è accaduto in passato, bloccando per decenni l’università. La protesta contro il precariato è tutta italiana. La prima cosa che s’impara in Gran Bretagna è che nella maggioranza dei lavori non esiste il posto fisso: esistono contratti a termine e se uno funziona, il contratto viene rinnovato e fa carriera. Ho visto persone assunte per uno stage per pochi mesi, fare  carriera in aziende come la BBC e avere poi ottimi contratti, lunghi, mai definitivi, sposarsi, fare bambini, comprare la casa.

In Gran Bretagna dagli anni Ottanta a oggi sono raddoppiati i laureati e anche i disoccupati: da qui anche la dura decisione del governo Cameron di aumentare le tasse universitarie da 3.000 euro a 9.000-12.000 euro. Gli studenti che non potranno pagare, potranno prendere un prestito e  passeranno tutta la vita a restituirlo. E’ una misura  per scoraggiare le iscrizioni alle università, ci sono state proteste, ma il Times ha appoggiato Cameron e il Guardian non ha buttato benzina sul fuoco. Da noi avremmo avuto la rivoluzione: il Corriere e la Stampa scatenati, il presidente della Repubblica non avrebbe firmato la legge, la Consulta avrebbe subito dichiarato incostituzionale il provvedimento. Gli inglesi sono seri: si sono resi conto di produrre disoccupazione, frustrazione, disagio e sono corsi ai ripari. Agli inglesi non è mai venuto in mente di poter abolire la piaga dell’alcolismo e costruiscono pensiline, perché gli ubriachi si riparino dalla pioggia, non si ammalino e non gravino sul sistema sanitario.

Il ragionamento di Cameron è realistico: se i figli dei ricchi vanno all’università e spendono per lauree inutili, non moriranno di fame se non trovano lavoro, perché hanno famiglie benestanti, che alla lunga finiranno per decadere e fallire. I figli dei “poveri”, che non andranno all’università, potranno almeno arricchirsi facendo quei lavori che non accetterebbero mai con un master e Phd, quindi il paese è salvo, produce ricchezza. È l’Inghilterra di Adam Smith, il paese dove la nobiltà si fuse con la borghesia e non finì parassitaria come quella continentale. In Italia, un giovane muratore albanese o rumeno prende 30 euro all’ora e, lavorando sodo, come sanno fare gli immigrati, può arrivare a 7.000 euro al mese, più di un ordinario italiano. Una colf prende 8 euro all’ora, circa 1.900 euro, e una coppia di domestici arriva a 3.800 euro, come due insegnanti di scuola media.

Gran parte delle mansioni manuali e tecniche sono ricoperte da giovani immigrati. Gli immigrati  lavorano sodo, risparmiano, mandano soldi a casa e progettano il futuro. La Polonia si è finora salvata dalla crisi per le rimesse degli immigrati in Gran Bretagna: gli immigrati dell’est Europa, per non parlare dei cinesi, fanno lavori che gli inglesi non accettano, diventano imprenditori, si arricchiscono e producono ricchezza. Anche in Italia abbiamo immigrati diventati imprenditori, cominciando da lavori che un italiano non farebbe mai, a differenza dei genitori e dei nonni. Quando Tommaso Padoa Schioppa parlava di bamboccioni, pensava alle famiglie, che investono su figli laureati che rimarranno disoccupati e ne avranno un danno, come tutto il paese.

La cosa peggiore è illudere i giovani. Il computer non serve solo per twitter e fb per vincere il referendum, come ha  scoperto la sinistra. Il computer è una rivoluzione tecnologica che ha prodotto una drastica riduzione di posti di lavoro per ogni settore per i quali era necessario un concorso locale o nazionale. L’ambita laurea per vincere un concorso per un posto fisso nell’amministrazione locale, statale, alle poste, in banca, ecc., non serve più, perché non ci sono più quei posti. Li ha eliminati il computer.

È populismo imbrogliare i ragazzi, come fa Mario Calabresi nelle Lettere al Direttore de La Stampa, invitandoli a fare la “rivoluzione” come in Egitto, perché la nazione non si è aperta ai giovani e nessuna classe di governo si fa destabilizzare col sorriso sulle labbra (sic, La Stampa del 17 giugno). Oppure il 16 giugno in “Questa politica sorda che offende i precari”, dove non invita i giovani disoccupati a darsi da fare, a trovare un lavoro qualsiasi, ma a dedicarsi al volontariato, occupazione senz’altro nobile, ma con cui non si paga l’affitto, né il cibo, né si mette su famiglia.

Sergio Romano pubblica invece nella sua rubrica sul Corriere del 17 giugno una lettera di un precario 32enne, impiegato all’ufficio immigrazione di Pesaro di nome Enrico Marcaccin. L’uomo si considera offeso da Brunetta, perché ha preso una laurea in giurisprudenza sei anni fa e si alza alle cinque ogni mattina per andare al lavoro e mantenere la famiglia. La lettera di Marcaccin è pubblicata col titolo “Nel nostro paese. Vivere da precari”. Un titolo da Fontamara di Ignazio Silone, un’Italia disperata, mentre il trentenne Marcaccin fa quello che tutte le generazioni – eccetto i babyboomers – hanno fatto a 30 anni: si alza la mattina, lavora e ha una famiglia, di cui sembra fiero.

È un grave errore alimentare la speranza di successi e guadagni facili con una laurea, quando non è così. Sergio Romano e Mario Calabresi deplorano spesso che in Italia non prevale il merito, ma il nome, la famiglia, le conoscenze. Entrambi conoscono gli Stati Uniti e sanno che vi sono dinastie politiche, economiche, artistiche: dai Kennedy ai Clinton ai Bush, senza  contare i figli d’arte di Hollywood. Sanno che senza l’appoggio dei Kennedy e dei Clinton Obama  non sarebbe stato eletto. Conoscono l’importanza dei cognomi da noi. Mario Calabresi ha un cognome legato a un dramma, il padre  ucciso, Lotta Continua,  Sofri, le firme di tutti i più importanti intellettuali contro. Un episodio di cui  la cultura e il giornalismo si vergognano ancora. La sinistra aveva un debito e l’ha pagato: gli ha offerto un posto a Repubblica e poi la poltrona de La Stampa. Lui l’ha preso e si conforma alla sinistra. Perché no?

Si sa come va il mondo, se, in settori come la cultura e il giornalismo, non ci si conforma alla sinistra. Calabresi ha deciso di non farsi rubare il futuro ed è salito sul treno. Però sa di avere avuto il posto per il babbo morto. Perché illudere i ragazzi a credere che contino solo il merito e la verità?
C’è qualcosa di tragico in Calabresi, ha voluto ridare l’onore al padre e diventare un simbolo della  cultura che lo ha reso orfano. Troppo semplice derubricarlo a un caso di sindrome di Stoccolma, basta pensare a Giacomo VI di Scozia, figlio di Maria Stuart e successore di Elisabetta Tudor al trono inglese. Giacomo fu considerato ambiguo, un traditore, un enigma. Ebbe un’infanzia dura, riuscì a sopravvivere, a diventare re di Scozia. Protestò lievemente quando Elisabetta uccise sua madre: Maria viva alla morte di Elisabetta, sarebbe stata un ostacolo al trono d’Inghilterra. Scrisse anche una lettera  al papa, chiedendo umilmente se nel caso fosse diventato re d’Inghilterra, gli avrebbe concesso la  benevolenza accordata alla madre.

Giacomo sapeva scrivere, il papa gli aprì le braccia, diventò la speranza dei cattolici. Fu anche la speranza dei protestanti: Londra accolse festosa il figlio protestante di Maria, sposato a una danese, non a una spagnola. Giacomo gettò il passato più in là. In fondo, lo dice Freud, bisogna uccidere il padre per trovare se stessi. Giacomo voleva la pace,  non sopportava i parlamenti, gli piaceva essere re e, soprattutto voleva scrivere, inondò l’Europa dei suoi scritti. A Mario Calabresi piace molto scrivere, scrive bene, forse a volte si fa prendere la mano dal semplice piacere di scrivere, un po’ come Giacomo, a cui piaceva principalmente scrivere. Forse, come è stato rimproverato a Giacomo, ogni tanto dovrebbe anche pensare.

Sergio Romano è un fine realista, sa giocare con grazia con le parole. Sa passare dalle sfumature più sottili del realismo politico quando si tratta di passato, al rigore inflessibile sul presente. È stato  il primo, forse, a introdurre il tema del conflitto d’interesse, da buon esperto della politica americana. Tuona contro la gerontocrazia che toglie il futuro ai ragazzi, contro il familismo, le offese al merito di tanti nostri bravi giovani, ma sa, come accade a Hollywood, che per i figli dei grandi attori, è tutto più facile. La laurea conta poco. Sarebbe quindi più serio adottare il tono dei giornalisti del Times e non dare a bere ai giovani che basti una laurea per avere successo sicuro.

Ci sono  professioni come l’avvocato, dove non basta la laurea in giurisprudenza. Se non si ha un studio allo spalle, affermarsi per un avvocato è difficile. Per inserirsi in uno studio un giovane avvocato deve fare la gavetta, come ci insegnano tanti film e serial americani. Forse al 32enne laureato in giurisprudenza,  questo andava spiegato con garbo, invece di rubricare il tutto sotto la voce: “Nel nostro paese. Vivere da precari”.Un giornalista del Times avrebbe osservato che la dolce vita non è mai stata un mito british, con quella fierezza che è grande una risorsa britannica. Oppure, poteva consigliare di fare come la figlia d’arte Maurizia Russo Spena e cercare un posto in parlamento con i voti dei precari.