Se esiste la fame nel mondo non è colpa del Capitalismo

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Se esiste la fame nel mondo non è colpa del Capitalismo

21 Ottobre 2007

Benedetto XVI, uomo della massima levatura intellettuale e morale, ha speso recentemente molte parole su come la ricerca sfrenata di beni materiali danneggi tutti noi. Negli Angelus pronunciati lo scorso mese di settembre, ha indicato quella che molto probabilmente sarà la nota dominante sulle problematiche sociali che caratterizzerà gli anni a venire del suo pontificato. I moniti del papa contro lo spirito di avidità e la durezza di cuore verso i poveri meritano di essere costantemente ribaditi in un mondo che tende sempre più a rinchiudersi in se stesso e a disprezzare quelli la cui esistenza appare fallimentare. Il papa, nondimeno, ha fatto anche alcune affermazioni di natura empirica, sostenendo che è stata la nostra attuale inclinazione verso il profitto a scatenare l’emergenza alimentare mondiale e la crisi ecologica del pianeta. La questione morale si fa allora più complessa di come può sembrare a prima vista.

In quali paesi precisamente, o a causa di quale meccanismo del sistema internazionale oggi la fame è più diffusa nel mondo rispetto al passato? La risposta è quasi da nessuna parte. Infatti, miliardi di persone sono state sollevate dalla loro condizione di povertà grazie ai benefici ricevuti dal loro ingresso nelle moderne economie di mercato. Nel mio paese, gli Stati Uniti, una famiglia che oggi usufruisce della previdenza sociale vive allo stesso livello di una famiglia della classe media degli anni Sessanta. Due terzi degli americani ha un’abitazione di sua proprietà, mentre i tre quarti hanno una propria autovettura, anche più di una. Potenzialmente tutti possono permettersi una televisione a colori, elettrodomestici da cucina, telefoni e computer. Senza dubbio esiste tuttora un problema di povertà relativa e programmi di assistenza alimentare continuano a essere necessari, specie per i bambini nelle scuole. Ma non vi è nulla che possa essere anche lontanamente chiamata una crescente “emergenza alimentare” nel paese che, forse più di ogni altro, incarna quello che gli europei spesso chiamano “capitalismo selvaggio”.

Il sistema economico internazionale ci offre un quadro simile. Stando al Bread for the World, nel 2006 le persone indigenti ammontavano a 854 milioni, 2 milioni in più dell’anno precedente. Concretamente, si tratta di una sfida enorme per noi che godiamo di grande abbondanza – e abbiamo una coscienza. Tuttavia, questi dati non considerano che la popolazione mondiale nel 2006 è cresciuta dell’1.2 per cento, ovvero di circa 75 milioni di persone. In realtà, la percentuale di quanti patiscono la fame in termini relativi è diminuita rispetto alla popolazione, perché il numero dei poveri è cresciuto all’incirca solo del 2 per cento, cioè appena di un sesto rispetto alla crescita complessiva degli abitanti del pianeta. Se il sistema economico internazionale avesse davvero ridotto la gente alla fame allo stesso ritmo, i poveri nel 2006 sarebbero stati almeno 10 milioni in più, e un numero ancora maggiore se fossimo stati davvero in presenza di una crescente “emergenza alimentare”. Guardando alla storia, oggi i ritmi di crescita della povertà e della fame sono nettamente più bassi che in passato, sebbene la popolazione mondiale sia di gran lunga superiore.

Inoltre, non è affatto così evidente che sia proprio l’avidità a giocare un ruolo determinante nel far in modo che la fame continui a esistere. Recenti studi su quelli che sono davvero i poveri nel mondo dimostrano che di solito sono quattro i fattori che contribuiscono alla loro condizione: 1) la corruzione politica dei paesi in cui vivono, che sfrutta il lavoro e spesso fa finire gli aiuti internazionali in mani sbagliate; 2) i conflitti interni, che destabilizzano le società e bloccano i canali commerciali; 3) un’economia basata su un’unica risorsa naturale, che scoraggia lo sviluppo di altri beni commerciabili e di servizi; 4) le barriere tariffarie, che impediscono ai beni e ai prodotti agricoli di entrare nei mercati delle economie avanzate, soprattutto Europa e Stati Uniti, che danno sussidi alla loro agricoltura. Di questi quattro fattori, solo nell’ultimo le nazioni ricche potrebbero effettivamente fare di più, e al momento l’ostacolo principale non è l’avidità, ma sono gli interessi degli agricoltori dei paesi avanzati. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di aiuto per entrare in quello che Giovanni Paolo II ha chiamato il ciclo della produzione e dello scambio agevolato dai mercati.

Per quanto tali considerazioni cambino la natura dell’argomento, non dovremmo servirci di statistiche o considerazioni politiche come scusa per non fare niente. I limiti degli aiuti internazionali sono ben noti da molto tempo. Ma ciò non significa che non possiamo fare pressioni per eliminare la corruzione, favorire l’apertura di canali commerciali, porre fine ai conflitti armati, e riportare i programmi di aiuto allo sviluppo su binari che condurranno ai massimi benefici per quanti, in quelle aree del mondo, cercano di migliorare la propria condizione. Può esserci certamente una dose di avidità ed egoismo che impedisce la raccolta di maggiori aiuti internazionali per i poveri. Nel mio paese, comunque, ritengo sia minima. C’è molto scetticismo verso gli aiuti che vanno da un governo all’altro, ma grazie alla grande generosità delle donazioni, il Catholic Relief Service, il Lutheran World Vision e le numerose organizzazioni laiche di carità, svolgono la loro funzione in maniera efficace. In ogni caso, il problema che si pone ha poco a che vedere con quelle ingiunzioni bibliche circa l’abbandono della peccaminosa ricerca della ricchezza per condividere i propri averi con i poveri. E’ più una questione di aiutare gli altri a imparare a dar vita a un’attività imprenditoriale che generi profitto – allo stesso tempo intervenendo con aiuti umanitari dove è possibile.

Un caso anche più complesso riguarda le affermazioni del papa sul perseguimento del profitto come causa empirica dei problemi climatici. Per cominciare, dobbiamo riconoscere che la rivoluzione industriale e tecnologica dei due secoli passati, insieme alle libertà economiche e politiche che l’ha resa possibile, ha dimostrato una capacità di fare il bene dell’umanità senza precedenti. Per la precisione, in questo torno di tempo la popolazione mondiale è cresciuta perché i progressi compiuti dalla modernità nel campo dell’aumento della quantità di cibo disponibile, degli strumenti di tutela del lavoro e della medicina, hanno fatto in modo che solo pochi di noi muoiano durante l’infanzia e siano molti di più quelli che vivono fino a 80 anni. Nella Bibbia, 80 anni è un’età solo “per quelli che sono forti” (Ps 90:10). Oggi, a meno che non si muoia in un incidente o per malattie mortali, le nostre possibilità di sopravvivere fino ad 80 anni sono le maggiori di sempre. I tassi di longevità stanno crescendo più di quanto si sia mai visto prima nella storia dell’umanità non solo tra i benestanti, ma tra le minoranze razziali ed etniche e le nazioni più povere della Terra. La popolazione mondiale è aumentata esponenzialmente non per l’incremento dei tassi di fertilità. I tassi di fertilità sono in declino ovunque, al punto che molte nazioni rischiano il collasso demografico. Il nostro numero, invece, è cresciuto grazie allo sviluppo politico, tecnologico ed economico.

Tutto ciò va messo in relazione con il danno ecologico che abbiamo causato al pianeta. Non c’è dubbio che questo danno sia stato prodotto. Per la gran parte della rivoluzione industriale, al pari dei nostri antenati, abbiamo avuto scarsa consapevolezza di quanto la nostra attività provocasse danni di lunga durata alla Terra. L’umanità, fino a quel momento, era stata troppo debole e i nostri bisogni troppo numerosi per porre al problema la necessaria attenzione. Ma non appena preso atto delle conseguenze di quello che stavano facendo, abbiamo reagito piuttosto rapidamente. La qualità dell’acqua e dell’aria è molto migliore nel mondo di oggi di quanto lo fosse un quarto di secolo fa. Rimane molto da fare in materia di rilascio di tossine nell’ambiente, protezione delle specie animali e delle risorse biologiche e contro le potenziali sfide poste dal riscaldamento globale. Un osservatore neutrale, comunque, direbbe che l’umanità finora ha agito abbastanza bene nel rispondere al nuovo insieme di problemi creati dalla sua stessa attività.

Il riscaldamento globale, senza dubbio, rimane una minaccia di lungo periodo nei cui confronti ancora non sappiamo come comportarci. Il Vaticano e le altre istituzioni religiose mondiali hanno recentemente lanciato l’allarme sull’incombente crisi ambientale, ancora una volta considerandolo un problema che può essere risolto rigettando l’avidità. Ciò corrisponde sicuramente al vero laddove aziende e imprenditori ignorano palesemente le problematiche ambientali nella ricerca del profitto. Ma il numero di questi casi è alquanto limitato. E’ di gran lunga più comune che le attività che emettono gas serra nell’atmosfera sono anche quelle che hanno aiutato gli esseri umani a uscire dalla povertà. Nella maggior parte dei casi, quel che ci si presenta non è l’avidità contro l’ambiente – e la Natura, l’abbiamo dimenticato, è spesso una minaccia o una sfida per il prosperare dell’umanità. Piuttosto, ci troviamo di fronte a una scelta tra benefici: quante emissioni di gas serra possiamo permetterci annualmente senza danneggiare il motore economico che ha ridotto con successo la povertà e la fame ovunque nel mondo, e che è l’unica risorsa probabilmente in grado di garantire continui progressi contro la miseria che affligge l’umanità?

Se si accettano gli scenari catastrofici paventi da certi ambientalisti – viene subito in mente Al Gore -, si può essere facilmente indotti a credere che solo abbandonando il nostro attuale stile di vita sussistano ancora le possibilità di evitare un’apocalisse. Se, nel prossimo secolo, il livello degli oceani salirà di 20 piedi o la media della temperatura mondiale si alzerà di 7 gradi o più, ci saranno conseguenze catastrofiche per la vita umana. Le aree sotto il livello del mare rimarranno sommerse e i cambiamenti nella frequenza delle precipitazioni e delle ondate di calore potranno minacciare la sicurezza alimentare. Tuttavia, va messo in chiaro che sarà l’umanità a subire il danno. Il pianeta creato da Dio ha già sopportato nella sua storia variazioni climatiche di origine naturale dalla portata molto più ampia di quelle che qualsivoglia attività umana possa mai provocare: ghiacciai giganteschi che hanno sommerso l’emisfero settentrionale; siccità che hanno asciugato il Mediterraneo e piogge che varie volte lo hanno nuovamente riempito; rocce spaziali “killer” che si sono abbattute sulla Terra eliminando gran parte delle specie naturali viventi.

Fortunatamente, sono proprio questi gli scenari catastrofici. Nessuno conosce con certezza quali siano gli effetti del riscaldamento globale, neppure gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite. Questi parlano di probabilità e di una serie di conseguenze possibili. Nel report del 2007 sostengono che nel prossimo secolo la crescita del livello del mare sarà poco più di un piede – e non 20 piedi -, la stessa crescita che il mondo ha conosciuto a partire dal 1850; che l’andamento delle precipitazioni e della temperatura media globale avrà ricadute negative sui paesi prossimi all’equatore, che verranno però compensate dai raccolti più abbondanti e dalle migliori condizioni di prosperità di cui beneficeranno i paesi a latitudini più settentrionali. In pochi sanno che nel 2003, l’anno che ha visto morire 35 mila persone in Europa per quella ormai famigerata ondata di caldo, nel resto del pianeta sono state di più le persone morte a causa del freddo. In altre parole, è meglio pensare a come affrontare gli effetti più probabili del riscaldamento globale, almeno finché non avremo tecnologie in grado di sostituire l’uso che facciamo oggi di combustibili fossili.

Ora, non si vede cosa centrino nella discussione la ricerca del profitto o l’avidità. Si può fare profitto sia affrontando il problema del riscaldamento globale che mantenendo lo status quo. La gente demonizza le compagnie elettriche e petrolifere perché le ritiene responsabili della resistenza alle riforme in senso ambientalista. Ma realisticamente è molto difficile una riduzione del consumo di combustibile fossile pari all’80 per cento, che è quanto di cui si avrebbe bisogno per produrre un cambiamento significativo, qualunque sia la porzione di riscaldamento globale prodotta dall’uomo. Prendere misure prudenti, come sostituire le lampadine incandescenti con lampadine fluorescenti, ridurre l’uso della benzina, il riciclaggio e altro ancora può offrire un aiuto per quanto è concretamente possibile nelle circostanze attuali. L’imposizione di tasse sulle emissioni di carbone e altri provvedimenti pubblici moderati possono contribuire a ridurre il consumo di una qualunque sostanza. Ma le compagnie elettriche e petrolifere al momento ci forniscono un servizio insostituibile. Sarebbe un’opera di grande moralità se le nazioni avanzate destinassero ampie risorse alla ricerca e allo sviluppo di fonti di energia alternative in grado di essere impiegate senza grave pregiudizio per i processi umani esistenti.     

La Chiesa cattolica ha sviluppato in oltre 2 mila anni di storia una tradizione teologica e morale molto complessa. Benedetto XVI ha rimarcato alcune differenze cruciali nei suoi Angelus sui modi giusti e sbagliati di ricercare il profitto. Il profitto inserito in un ordine morale e spirituale più ampio, come anche Giovanni Paolo II ha messo in evidenza, genera effetti positivi per l’umanità. Il profitto fine a se stesso è chiaramente cosa non umana. I difensori del libero mercato sostengono da decenni che i mercati, con tutti i difetti, producono, in pratica, molti più benefici per l’umanità rispetto ai sogni filosofici di Marx e dei socialisti “scientifici”. Oggi abbiamo le prove empiriche che è così. Dato che il papa continuerà a divulgare le sue idee sul modello cui, nel nuovo millennio, vorrebbe somigliasse una società globale davvero umana, la nostra speranza è che integrerà le suddette prove alla visione morale di cui Egli è raffinato e convincente portavoce.
 

Robert Royal è presidente del Faith & Reason Institute di Washington.