Su Cina e Africa la lezione del Professore non convince

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Su Cina e Africa la lezione del Professore non convince

08 Ottobre 2010

Secondo Romano Prodi le economie africane devono molto al rapporto con la Cina grazie alla quale, inoltre, l’Africa occupa finalmente una posizione di primo piano sulla scena internazionale: “Di sicuro – sostiene l’ex presidente del Consiglio, dal 2008 a capo di un gruppo di esperti incaricato dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana di occuparsi delle missioni internazionali di peacekeeping in Africa – lo sviluppo africano ha ricevuto negli ultimi anni grande giovamento dall’enorme aumento delle esportazioni verso la Cina. Ed è anzi incontrovertibile che solo l’irruzione cinese ha messo in primo piano l’attenzione degli americani e degli europei nei confronti del continente prima dimenticato”.

Pechino, sempre secondo Prodi, avrebbe sconvolto tutte le strategie precedenti: “La Cina – ha dichiarato in un’intervista pubblicata sul numero di settembre di Nigrizia, il mensile dei missionari comboniani – è l’unico paese al mondo che esporta merci, tecnologia, uomini e capitali assieme. Non è mai successo prima”.

Qualcosa però continua a non funzionare in Africa, almeno stando all’autorevole Mo Ibrahim Foundation, la fondazione che porta il nome del suo creatore, l’imprenditore sudanese leader nel settore della telefonia mobile. L’Indice Ibrahim della governance, alla quarta edizione, rivela infatti che, su base 100, la media del buon governo in Africa quest’anno arriva soltanto a 49. Il rapporto, appena pubblicato, denuncia quindi uno stato di preoccupante “recessione democratica” con, in particolare, ben 35 paesi su 54 che vedono i progressi economici realizzati compromessi da corruzione, malgoverno e violazioni dei diritti umani.

Poco ottimista è anche l’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo. Il capo della sezione Africa, l’economista Norbert Lebale, commentando i disordini scoppiati a settembre in Mozambico a causa del rincaro dei generi di prima necessità e lo sciopero dei dipendenti pubblici in Sudafrica, indetto per reclamare consistenti aumenti di stipendio, ha spiegato il crescente malcontento popolare, in questi e in molti altri paesi, con il fatto che ai dati macroeconomici di sviluppo, in effetti incoraggianti, non corrispondono miglioramenti nelle condizioni di vita e, al contrario, l’inflazione riduce il potere d’acquisto dei redditi del ceto medio e delle fasce di popolazione più deboli: l’aumento del PIL indica che vengono prodotte maggiori ricchezze, ma la ricaduta positiva sugli abitanti di una nazione dipende ovviamente da come le risorse disponibili vengono amministrate.

Tornando a Prodi, dunque, c’è da domandarsi che cosa abbia mai ispirato le sue convinzioni sui fattori innovativi che Pechino avrebbe introdotto e sui benefici che l’Africa ne trae. Esportare al tempo stesso merci, tecnologia, uomini e capitali sarebbe una strategia mai adottata prima? In verità, l’Occidente non fa altro, da secoli. Né vi è nulla di originale e di inedito nella politica adottata da Pechino: “Strumenti pubblici e privati, remissione del debito estero, linee di credito a lungo termine, colossali investimenti in infrastrutture, assistenza tecnica, sanitaria e scolastica, investimenti nel settore petrolifero, minerario, agricolo, bancario e industriale”.

Si direbbe anzi che abbia copiato esattamente la formula collaudata dai paesi del blocco occidentale e di quello comunista subito dopo le indipendenze e tuttora seguita dalla cooperazione internazionale bilaterale e multilaterale. Un problema di sempre, però, è che l’Africa continua, anche con la Cina, a esportare materie prime e a importare manufatti, il che incide negativamente sulla bilancia dei pagamenti, con l’aggravante di una fuga di capitali all’estero di proporzioni astronomiche.

Europa e Stati Uniti hanno dimenticato l’Africa finché la Cina non si è affacciata sulla scena? Anche questo è del tutto e talmente falso da rendere superfluo dilungarsi a dimostrarlo: e, difatti, fino a pochi anni fa li si accusava, caso mai, di essere troppo interessati al continente e troppo presenti.

Piuttosto, l’astensione della Cina da ogni interferenza nell’operato dei governi africani, in altre parole la sua disponibilità a intrattenere rapporti economici senza porre condizioni, vanifica i tentativi tardivamente intrapresi dall’Occidente per ottenere democrazia e rispetto dei diritti umani, chiedendone la promozione in cambio della prosecuzione delle attività di cooperazione allo sviluppo. Ormai, se l’Unione Europea chiude i cordoni della borsa e impone sanzioni, subentra Pechino. Ma anche questa non è una strategia originale: è in questo modo che durante la guerra fredda i due blocchi e, al loro interno, i singoli paesi, si sono contesi l’Africa creando sfere d’influenza di utilità economica e strategica.