Sui mali del fumo e qualche paradosso

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Sui mali del fumo e qualche paradosso

15 Gennaio 2015

Io sono un ammalato e desidero attirare l’attenzione di chi può sui problemi di coloro – e sono molti milioni – che come me soffrono della stessa patologia. Inizio con la diagnosi, conclamata da un’autorità sanitaria nazionale: L’Aimar, associazione italiana malattie apparato respiratorio, il 30 giugno 2003, ha sancito che “il tabagismo va considerato come una malattia cronica come il diabete” e ciò ha fatto in occasione della presentazione, a Milano, del Programma di formazione dei medici per la disassuefazione da fumo, con il patrocinio del Ministero della salute.

Sappiamo che per il diabete o per qualunque malattia cronica nessuno può chiedere al malato di lasciare in un altro luogo la propria malattia o di sospenderla perché dà fastidio. Nel caso del fumo, però, se non si è dotati della spontanea buona educazione al rispetto altrui,  è comunque un dovere e un obbligo di legge non coinvolgere chi non condivide il fumo, né attivo né passivo.  Ed io su questo rispetto sono sempre stato esigente ed anche in casa, in camera da letto, non ho mai né fumato né permesso che lo si facesse. Accanto a questo rispetto mi sembra giusto, proprio in termini di pari opportunità nei diritti del malato, proporre alcune riflessioni. 

La prima: il danno potenziale ed il divieto sono connessi al fumo. Ma quanti hanno riflettuto sul fatto che non è né può esser contemplato il suo odore (o puzzo)? Chi tra i fumatori non sa bene come, anche per strada, c’è chi a distanza, inizia a sventolarsi alla sola vista del fumo altrui? Proprio alla sola vista e non al percepimento dell’odore. Come sappiamo la legge non vieta il “puzzo” del fumo e quindi, a parte gli asmatici, giustificati perché potrebbero subire una induzione a una crisi, chi reagisce alla mera percezione olfattiva e finanche soltanto visiva  è a sua volta preda di un malessere comprensibile, ma ingiustificato dal punto di vista sanitario, che si chiama pretesa di sanzione ghettizzante, affermazione di un principio che si fa patologia… 

E’ un malessere dell’anima che si sintetizza nella parola intolleranza. E se la difesa del proprio senso olfattivo è una aspettativa comprensibile, chiediamoci se non lo sia anche la difesa dell’udito rispetto a una voce sgradevole da patire per otto ore in ufficio per via di un collega che ne è incolpevole portatore.  E che dire, in danno di chi soffre di depressione, della vista, (altro senso, più importante dell’olfatto), di un maglione o di altro indumento dal colore deprimente indossato da chi convive per un qualche tempo con noi? 

Certo, sembrano paradossi, ma soltanto perché non sono temi, quello visivo e quello uditivo, di uso comune anche se ci rovinano la giornata comunque, proprio come entrare in un luogo dove, pur non essendovi fumo attuale, ve ne sia l’odore, il puzzo. E se si diffondesse anche la intolleranza per i suoni sgraditi, per i colori deprimenti o per taluni pessimi profumi per signora?                           

La seconda riflessione: se il fumo è una malattia, può lo Stato, oltre che meritoriamente impedire i potenziali altrui danni, non farsi carico di aiutare i malati nella loro vita di relazione e lavorativa mettendo a loro disposizione adeguati e dignitosi spazi di attività o di provvisoria permanenza? Non sarebbe un dovere? Attualmente sembra che non lo sia un dovere, anzi, sembra che cresca sempre più la gara a chi ghettizza. 

Certo, il fumo è anche un vizio e ciò ne fa oggetto di spregiudicata e sprezzante non condivisione. Ma in quanto vizio gli interventi pubblici potrebbero essere di vario genere e qualcuno è già in atto, come il divieto nelle scuole. Impedirlo al suo insorgere è un dovere “pedagogico” dello Stato, dimenticare che diviene spesso una malattia cronica e che, in pratica, io lo so, diviene fisiologia esistenziale, è imperdonabile. E’ stata persa la timida guerretta per ottenere l’aggiunzione di un ultimo vagone per fumatori nei convogli ferroviari, il cui biglietto fosse gravato di una quota in più per pagare la mascherina del controllore e magari per l’installazione di un aspiratore.                              

Ora all’orizzonte appare il divieto nei parchi. Chiedo: saranno distinte le zone per non fumatori o il divieto sarà assoluto? In quest’ultimo caso, non sarebbe più maturo sancire che è vietato ai fumatori l’ingresso ai parchi invece di chiedergli paradossalmente di lasciare la loro malattia da un’altra parte?

Qualcuno si dorrà che non cito il favore legislativo di cui gode il gioco d’azzardo e la stessa vendita delle sigarette, entrambi, con maldestra ingenuità, vietati ai minori, ma portatori di lautissimi tributi. Non diverranno malattie individuali – ludopatia e tabagismo – e sociali? Non rovinano le famiglie gli uni e creano malati cronici (di fumo) gli altri? Ma questo è politicamente scorretto e mi taccio. 
 
Mi scuso se ho dato fastidio, ma, sapete com’è, i malati sono fastidiosi. Specialmente quando si vedono trascurati o temono di esserlo. E concludo con un ultima sollecitazione: non sarebbe necessario proteggere con idonee cure coloro che, per intolleranza mentale (quella fisica, annovera pochissimi afflitti) non sopportano il puzzo del fumo  e pretendono che sia sancito come il fumo reale? Ci sarà una cura almeno per loro? 
 
Personalmente io tollero le voci sgradevoli pur se mi si contorcono le viscere, tollero gli orribili profumi di talune signore e finanche i discorsi cretini che offendono la mia già stentata intelligenza, ma mi esaltano la gastrite. Posso, per pari opportunità di malato, chiedere sommessamente di lasciarmi passeggiare in un parco sfumacchiando una sigaretta lontano dai bambini, da chi non vuol subire il puzzo del mio fumo ed evitando le cacche dei cani che evacuano in fretta per sfuggire al mio fumo che minacciosamente, ma dissolvendosi, si annuncia in lontananza?