Tra etica e politica: il caso (esemplare) delle agenzie di rating

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Tra etica e politica: il caso (esemplare) delle agenzie di rating

03 Settembre 2012

Tra le strategie di contenimento degli effetti sull’Europa dei giudizi di downgrade delle agenzie di rating, si discute della opportunità di istituire una agenzia continentale. Per “portare vantaggi in termini di varietà di pareri nel mercato … e costituire un’alternativa al modello issuer-pays”, sostengono i fautori a Bruxelles. Per “riequilibrare i veri valori in campo” schiettamente traduce il nostro economista bocconiano Fabrizio Pezzani.

Ma avrebbe senso aggiungere una nuova agenzia – oltretutto nascente con legittimo sospetto di faziosità se non di rivalsa – che gioca con le regole delle squadre già in campo da un secolo? Il problema di fondo, infatti, non riguarda forse il metodo piuttosto che il merito?

Se le agenzie di rating – nonostante qualche palliativa innovazione statunitense light touch del Dodd-Frank Act, o dell’emanando – con improvvida lentezza – Regolamento europeo dei derivati – nella sostanza continueranno a conferire il proprio valore aggiunto professionale solo alla seconda parte di un processo informativo nella cui prima parte (l’acquisizione dei dati) rimangono sostanzialmente passive, e ciò per prassi consolidata se non per legge, che oggettività può avere un parere (perché di giudizio infatti è inopportuno parlare) esteso a entrambi i segmenti del processo? Chiedere a ciascun oste com’è il suo vino, e poi buttar giù una graduatoria – con punteggi a tre cifre decimali – per il Gambero rosso!

E’ noto che di bilanci se ne possono scrivere tanti, uno per ciascuna classe di destinatari: il fisco, gli azionisti, le banche, i potenziali compratori e le agenzie di rating. Ma chi sindaca sui crediti esigibili o inesigibili? E sulla congruità dei margini operativi? Chi stabilisce equi ammortamenti di immobili e impianti? Fiscali? Contabili? Anticipati? E la valutazione degli altri asset? A reddito? Quali i criteri?

E qui si apre un capitolo duro sul ruolo negato alle professioni tecnico-scientifiche. L’economia reale senza tecnologi e ingegneri non produrrebbe un solo dollaro di beni o servizi. Ma delle loro professionalità si guarda bene dal servirsi l’economia virtuale. Come professionisti, un lusinghiero implicito riconoscimento di onestà intellettuale; ma come cittadini, un’inaccettabile e deleteria diminutio culturale e sociale. Una emarginazione operativa da contrastare a tutto campo. Anche perché, come riconosce a proposito della crisi dell’euro l’economista statunitense Tyler Cowen, “What is more disturbing is that the euro zone countries are democratic, protective of basic liberties, with advanced intellectual and research communities”.

E’ inconcepibile che qualsivoglia investitore non pretenda quanto meno una due diligence, un audit severo che riclassifichi – ricominciando praticamente da zero – i bilanci del venditore secondo criteri condivisi e diligenti. Troppo complicato, non c’è il tempo, costerebbe troppo? Ma allora chiudiamo il cerchio prendendo atto che le agenzie di rating possono sottrarsi a responsabilità civili e penali proprio perché il vino dell’oste non lo assaggiano mai. Da un secolo queste sono le regole ed evidentemente i protagonisti non avvertono ragioni per una rivoluzione. Anzi, nell’ultimo decennio molti derivati, da polizza assicurativa contro il fallimento del debitore, sono diventati una sorta di scommessa pura: la spietatezza e l’imperfezione fanno parte del gioco, con la seconda che si fa alibi per la prima. Non altrimenti sarebbero spiegabili i tanti e clamorosi abbagli, da Enron a Lehman Brothers, che avrebbero travolto il sistema se non ci fosse una tacita, mutua, complice consapevolezza che ai player sta bene così. Ma il paradigma cambia radicalmente quando il rating si applica a uno Stato sovrano.

Un tempo braccio – anche armato – degli stati, oggi sono infatti le società a soggiogare gli stati, esasperandone le differenze con l’istintivo obiettivo di isolare e colpire i più deboli. Sotto il profilo etico, in tal caso i cittadini – potenziali oggetti in carne e ossa di scommesse o profezie autoavveranti – non hanno scelta, la crudeltà del gioco può fare molto più male, la partita è molto, troppo asimmetrica, le conseguenze possono essere planetarie, uno Stato non è una Società per azioni, la storia può riavvolgere precipitosamente il suo nastro, tribalità potrebbero riaffiorare. Anche perché, dal punto di vista dell’approccio al rischio, una cosa è uno Stato, altra cosa è un’impresa, se la definizione – intrinseca – di impresa ha ancora un senso.

Sotto il profilo tecnico, poi, le poste vanno oltre quelle di uno stato patrimoniale e di un conto economico. Come valutare il futuro costo dei beni oggi disponibili in natura? O i costi della sanità? O l’invecchiamento della popolazione di qui a dieci/vent’anni (finché valgono le estrapolazioni…) e l’emergenza dei costi esponenzialmente crescenti delle disabilità denunciati dall’Oms e dalla Banca mondiale? O il contestatissimo “debito atomico” di cui parlò l’allora ministro Tremonti circa il decommissioning delle centrali nucleari che incombe come una spada di Damocle sulle nazioni nuclearizzate? (pochi sanno delle preoccupazioni dei tedeschi sulle loro popolatissime sponde del Reno per via della vetustà delle centrali francesi). O l’analogo “debito al silicio” per il decommissioning delle centrali fotovoltaiche? O i crescenti costi di tutela ambientale, delle foreste e dei mari? E dove posizionare la frontiera tra costi interni e costi esterni?

Se il mondo degli affari accetta consapevolmente da cent’anni di giocare con i numeri una partita molto sui generis – Only those who believe in Santa Klaus can fail to recognize that the information provided by loan originators is likely to be biased” recita una testimonianza resa allo US Senate Committee on Banking, Housing and Urban Affairs nell’aprile del 2008 – può essere questo stesso sistema di rating altrettanto accettabile da parte di intere nazioni? Se invece di una Company privata il rating va a toccare i conti di uno Stato sovrano, etica vorrebbe che ci si ponesse la domanda: quel rischio che broker e scommettitori accettano al loro tavolo esclusivo, sta bene anche a tutti i cittadini, lavoratori, pensionati, vecchi e bambini? Anche perché – e la grande depressione degli anni trenta dovrebbe insegnare – un imprenditore si può suicidare, i creditori possono intentare una class action, ma una Nazione, messa con le spalle al muro, può fare molto di peggio, a sé e alle altre.

Certo, l’Europa contemporanea, purtroppo non di rado vaniloquente, dall’acritico velleitarismo climatico all’accanimento normativo, dalla ipocrisia post-coloniale alla rimozione collettiva delle sue trasversali colpe del novecento, che ha accettato il compromesso di una unione incompiuta e ha rimosso la cura del cammino ancora da percorrere, ha strutturali debolezze e un rapporto tra etica ed economia conflittuale, complesso: nella lingua tedesca debito e colpa si confondono nella stessa parola (schuld), più ancora di oro (gold) e denaro (geld).

Economia ed etica sono cane e gatto dai tempi di Nietzsche. E’ pericoloso che la crescente insofferenza dal basso agli eccessi del capitalismo finanziario, percepito come prevaricatore di stati e democrazia, e come portatore di un millenarismo in cui il contagio di una sorta di peste finanziaria è vissuto come un’ineluttabile unzione, si manifesti come una simmetrica fobia di pancia, che disconosca e abbatta anche ciò che di buono e di irrinunciabile c’è nella finanza.

E’ tempo che i tecnici rivendichino il loro ruolo, che i politici riscoprano la loro funzione, e che soprattutto gli uni non si confondano con gli altri e viceversa. Più che un deficit di democrazia, scontiamo infatti nel caso – perciò esemplare – del rating, un deficit di uso intelligente (e democratico) dell’incrocio a rete delle nostre conoscenze. Noi cittadini, in primis tecnici e professionisti, dovremmo farci portatori – e comunicatori – nella società di una visione lucida e di testa dei problemi, basata sull’analisi dei fatti e sul realismo delle alternative; e i politici, di una revisione critica delle strategie di sviluppo e di welfare del passato. Possono i derivati continuare a determinare gli scenari delle fonti di energia o dei prodotti alimentari? “Changes in US gasoline prices over the past 10 years have predominantly been due to market factors rather than US federal economic or energy policies” scrive Richard H. Thaler. “Non sono più gli agricoltori a fissare il prezzo degli alimenti, ma i banchieri”, denuncia Guido Rossi sul Sole24Ore. Come può il turbocapitalismo in cerca di arricchimenti-lampo farsi incubatore del giusto sviluppo di tecnologie e infrastrutture energetiche di lungo e lunghissimo periodo? Le recenti vicissitudini dell’agosto 2012 in Italia dell’Ilva di Taranto e del Sulcis in Sardegna sono lì a provare questa impasse.

Qui, per la verità, emerge tutta la inadeguatezza della politica, che dovrebbe coniugare in una visione di grande respiro le ragioni del benessere materiale e morale con quelle di uno sviluppo compatibile con l’oggettiva complessità del mondo – e della finanza – globalizzati. Guidandoci fuori dalla crisi e raccogliendone i certamente presenti – come in tutte le crisi – fattori di rinnovamento ed evolutivi. “La vera crisi è l’incompetenza” – diceva Einstein – “il più grande inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d’uscita ai propri problemi”. Diversamente, continuare così, estemporaneamente scandalizzandosi per la manipolazione del Libor o per il riciclaggio di Hsbc, cui prodest? Davvero non ha un ruolo, presente o prospettico, l’immensa liquidità illegale planetaria in cerca di legittimazione? La grande politica non può accettare che la qualità della vita di centinaia di milioni di persone possa essere la posta di un gioco in cui il sistema di valori è intrinsecamente convenzionale e l’azzardo è la regola piuttosto che l’eccezione. L’abbraccio della finanza mondiale agli Stati sovrani ricorda il ricatto di feudatari, grandi elettori e grossi mercanti a re e imperatori per i loro debiti da guerre e da corti. Due secoli fa finì con gli stati generali prima, poi Robespierre, infine le guerre napoleoniche e la restaurazione.

E domani? “Un’attività incondizionata, di qualunque natura sia, alla fine fa bancarotta”, scriveva Goethe in tempi non sospetti. Altro che cavilli sul merito, raccomandazioni e dettagli di governance. Che si materializzi o meno l’incombente naufragio dell’euro, cosa deve accadere di più grave perché si ponga la questione dell’adeguatezza della politica e della correttezza del metodo?