Tra USA e Iran: la “ragione” dei governi, la “follia” degli elettori

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Tra USA e Iran: la “ragione” dei governi, la “follia” degli elettori

27 Giugno 2009

Secondo i principi della realpolitik, il dialogo tra Iran e Stati Uniti dovrebbe funzionare, non mancando interessi comuni, come un Iraq relativamente stabile e un Afghanistan libero dai Talebani e dal traffico di droga. In teoria, l’Occidente non dovrebbe eccessivamente preoccuparsi della questione nucleare, perché esperti iraniani e non ci assicurano che l’Iran non vorrebbe dotarsi della bomba atomica, non solo perché “anti-islamica” ma anche perché, “ragionando razionalmente”, non sarebbe nel suo interesse: provocherebbe una corsa agli armamenti nella regione, irriterebbe la comunità internazionale per la violazione dei trattati internazionali, esporrebbe il Paese ad attacchi militari.

In realtà, il quadro è più complicato: accanto al realismo esiste l’ideologia, e sotto il lato razionale dei decision maker si nasconde quello irrazionale. Non è un caso che la collaborazione avviata nel 2001 tra i due Paesi abbia avuto brevissima durata e circa il rischio di un Iran nucleare, continuiamo ad essere preoccupati. Perché? Non c’è qualcosa di irrazionale in tutto questo?

Come il famoso generale della guerra di secessione americana, William Tecumseh, ha sottolineato, sono la passione e il pregiudizio a governare il mondo, non la ragione. Anche per l’ex Presidente riformista Khatami il “realismo” è lungi dal rappresentare la realtà oggettiva e non è quindi esente da pregiudizi. “Se l’Iran non era in grado di comunicare il suo messaggio agli Usa – disse nel 1997 – era forse perché le assunzioni culturali erano diverse e mentre le parole possono essere le stesse, il significato attribuitogli no”.

I rapporti USA-Iran registrano 30 anni di sfiducia e ostilità reciproche. Ciò ha comportato il verificarsi della versione psicologica del security dilemma: azioni fatte in buona fede sono percepite dall’avversario come trappole o risultano inefficaci perché le parti in gioco sono convinte che l’altro non collaborerà. Potrebbe il 2009 offrire un’opportunità particolare rispetto alla politica interna iraniana e quindi ai rapporti Iran-USA?

Non mancano gli scettici. Costoro sostengono che le aspettative nei confronti di Obama sono eccessive perché è la storia a creare i Presidenti e non viceversa, che cambiare radicalmente la politica estera americana, in particolare su questioni di sicurezza nazionale, è molto difficile e che nemmeno un altro Presidente iraniano potrebbe inaugurare un’epoca diversa (date le prerogative della Guida suprema e del Consiglio dei guardiani, garantite dalla Costituzione).

Invece è importante tener conto, oltre che dei fattori strategici, anche della personalità dei leader, perché se è vero che i leader filtrano le informazioni, percepiscono i rischi e le minacce e reagiscono alle circostanze in modo diverso, è altrettanto vero che la loro psicologia può funzionare come un catalizzatore in grado di amplificare o ridimensionare l’importanza delle variabili della politica estera. I decision maker creano un’immagine dei loro avversari (le catastrofi del passato dimostrano i risultati che una percezione sbagliata può provocare), in un processo in cui gioca un ruolo importante la loro visione del mondo.

Bush già prima dell’11 settembre era convinto che la terra fosse “ancora un mondo di terrore, di missili e di pazzi sconsiderati”. Vedeva il mondo in bianco e nero (Obama, oltre a dimostrare che non c’è differenza tra bianchi e neri, privilegia invece il grigio), immaginando due campi (la giustizia da una parte e l’immoralità dall’altra) e solo due possibili esiti: vincere o perdere. Inseriva la guerra al terrorismo nella tradizione della lotta del bene contro il male, contando sull’aiuto di Dio. Ahmadinejad condivideva l’approccio bianco-nero ma non era d’accordo sulla divisione dei ruoli. Il 14 ottobre 2006, rivelando di contare sul sostegno di Dio che avrebbe portato l’Iran alla vittoria, ha spiegato: “il Presidente dell’America è come noi. Nel senso che anch’egli è ispirato … ma la sua ispirazione è di carattere satanico. È Satana che dà ispirazione al Presidente dell’America.”

Anche oggi l’Iran continua ad essere percepita come una minaccia dagli USA e viceversa. Ma ci sono significative differenze nel modo di sentirsi vulnerabili. In America è la popolazione a sentirsi più esposta, dopo il trauma dell’11 settembre, mentre in Iran è il regime a temere: alla maggiore vulnerabilità esterna (la politica di Obama è più “pericolosa” in quanto il dialogo è più difficile da rifiutare, rimanendo comunque lo spettro di una possibile interferenza americana negli affari interni) se ne è aggiunta una interna (manifestazioni e proteste sempre più drammatiche e veementi, dopo le contestate elezioni presidenziali). Il Presidente americano gode del sostegno dell’elettorato mentre la leadership iraniana teme per la sua sopravvivenza e per quella della Repubblica islamica.

Eppure, per migliaia di cittadini iraniani, sulla paura è prevalso il coraggio, sul pregiudizio la fiducia, sull’odio la passione. I manifestanti, dopo aver soffocato per tanto tempo la loro critica al regime, hanno deciso (secondo i sostenitori di Bush perché incoraggiati dalla politica di promozione della democrazia, secondo quelli di Obama perché toccati dal nuovo vento americano), di sfidare la paura per le ritorsioni del regime e di dar libero sfogo alla loro rabbia. Tra loro sono molti quelli che vorrebbero porre fine alla cultura della “morte all’America” e che nel risultato ufficiale delle elezioni hanno temuto svanisse nel nulla il sogno di un avvicinamento USA-Iran, con la condanna a continuare a vivere isolati dal mondo.

Una passione così forte per le strade dell’Iran non si vedeva dal 1979. Se si trasformasse davvero in una rivoluzione sarebbe senz’altro diversa da quella immaginata da Ahmadinejad quando parlava di una seconda rivoluzione, avviata grazie a lui, “più grande e più terribile della prima”. La rivoluzione potrebbe provocare un cambio di regime ma potrebbe anche essere soppressa da un regime sempre più violento. Gli scenari sono tanti, ma l’Iran che uscirà da questa crisi sarà senz’altro diverso.

Obama ha promesso di “affrontare la situazione che ci sarà e non quella che vorrebbe ci fosse”. Speriamo che sappia leggerla correttamente. Ogni attore deve essere compreso nel suo specifico contesto storico, culturale e politico, così da sviluppare una strategia efficace. Ora abbiamo un gap di conoscenza. Non conosciamo ancora bene Obama, non sappiamo come reagirebbe se il dialogo non dovesse funzionare con la coppia Ahmadinejad-Khamenei (unita per necessità e non per amore), se il precipitarsi della situazione politica iraniana lo costringesse ad andare oltre una “obbligata” critica alle “azioni ingiuste” del regime nell’utilizzo della forza contro i manifestanti (dopo la forse necessaria iniziale prudenza, ad alcuni apparsa ingenerosa). Non conosciamo le intenzioni di Khamenei, che nonostante sia al potere da vent’anni, rimane secondo Karim Sadjadpourpur (esperto del Carnegie Endowment for International Peace di Washington), uno dei leader più importanti ma meno conosciuti al mondo e neanche, in fondo, quelle di Mousavi (secondo molti non sarebbe quel riformista che immaginano molti commentatori e politici occidentali).

Senza nulla togliere all’importanza degli interessi nazionali nella definizione della politica estera, dovremmo prendere su serio il monito di Giuliano Amato (espresso in un recente seminario sull’Iran, organizzato dal Centro Studi Americani): i milioni di morti del XX secolo ci dimostrano che la “scelta razionale” spesso non prevale sulle scelte irrazionali. Una strategia che sottovaluti le questioni emotive, oltre ad essere inefficace nel capire gli interessi nazionali razionali, potrebbe risultare anche pericolosa.