Un congedo familiare alle donne che vanno in pensione più tardi

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Un congedo familiare alle donne che vanno in pensione più tardi

12 Marzo 2009

E se le donne che hanno avuto figli, invece di andare in pensione prima, andassero in pensione più tardi? L’idea sa di paradosso, visto l’andamento del dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile femminile: che ha visto una strana convergenza tra posizioni femministe e posizioni tradizionaliste o conservatrici – diverse nell’approccio, unite nell’opporsi alla proposta del ministro Brunetta. La consonanza tra le prime e le seconde si gioca in particolare sul tema della maternità, in una logica di tipo risarcitorio: le donne madri, si dice, nel corso della loro vita lavorativa hanno di fatto svolto un doppio lavoro, in casa e fuori. La conclusione è che avrebbero diritto ad andare in pensione anticipatamente, per “premiare” il loro doppio sforzo o far sì che possano in qualche modo “recuperare” le energie così generosamente profuse.

In realtà, un accorgimento del genere serve minimamente ad agevolare le madri: semmai, le nonne. Permettere alle lavoratrici di guadagnare un anno in più sul limite pensionabile per ogni figlio equivale a concedere loro più tempo a “fine corsa”, per occuparsi di altro – viaggi, nipotini, shopping; non certo per dedicarsi ai figli, che ormai non hanno più bisogno delle loro attenzioni; e a cui non hanno potuto dedicarsi a tempo debito, obbligate com’erano a dividersi tra lavoro e famiglia. Di fatto, fare i nonni in Italia resta più facile che fare i genitori: le carenti politiche di conciliazione nazionali si fondano in massima parte sull’appoggio degli anziani, che, ancora vitali e beneficiari di un sistema di welfare su misura per loro, badano ai nipotini in mancanza di asili nido o di baby sitter, e nella latitanza di una legislazione che intitoli madri e padri a farlo personalmente. Nel frattempo, le mamme che lavorano sperimentano una quotidiana corsa contro il tempo, nella quale riescono vincitrici solo grazie al sostegno di strutture e figure di assistenza – nonni, asili nido, baby sitter: che le agevolano, sì, nella conciliazione tra ruolo professionale e ruolo materno, ma a tutto discapito di quest’ultimo. Come ha osservato di recente Lucetta Scaraffia, le battaglie per l’emancipazione femminile hanno compromesso l’identità delle madri: le donne che lavorano, ha affermato la storica, “hanno conquistato la possibilità di fare tutto quello che fanno gli uomini, ma hanno perso il diritto di vedere valorizzata e protetta la maternità “. Regalare alle donne qualche anno di anticipo della pensione, oltre che come riconoscimento tardivo, potrà servire come incentivo alla procreazione: incoraggiare le lavoratrici a fare figli per usufruire del “bonus” avrà di certo ricadute positive sul deficitario tasso di natalità nazionale. Ma natalità e maternità sono due cose ben diverse, e promuovere la prima non sempre equivale a tutelare la seconda: per essere madri non basta fare figli, metterli al mondo, solo per affidarli poi ad altri.

Come è possibile allora adottare misure in favore delle donne, senza che appaiano come una riparazione fuori tempo massimo? Ad esempio, lasciando a loro la scelta. La lodevole intenzione di promuovere le pari opportunità può essere efficacemente realizzata anche tenendo ferma la necessità di rispettare le indicazioni dell’Europa, che ci chiede di equiparare il limite pensionabile femminile a quello maschile. Alle lavoratrici madri che accettano di andare in pensione a 65 anni, potrebbe essere riconosciuto il diritto a un congedo familiare, da uno a tre anni, comparabile al periodo “sabbatico” previsto  dalla legge 53 del 2000 per motivi legati alla formazione. Starebbe poi alla lavoratrice decidere se avvalersene nel corso della vita lavorativa – magari per occuparsi dei bambini nel delicato periodo della prima infanzia, senza impazzire – ovvero alla sua fine, per riposarsi: in quest’ultimo modo si otterrebbe di fatto lo stesso effetto dell’anticipo pensionistico, ma senza la ricaduta onerosa per le casse statali comportata da quest’ultimo. Il godimento di un simile congedo avrebbe infatti l’effetto di una “parentesi” nella carriera lavorativa, sospendendo retribuzione e contribuzione: a finanziarlo potrebbe valere un anticipo del TFR, svincolato dalle condizioni oggi previste.

Infine, in ossequio alla parità, e per incoraggiare una migliore distribuzione dei carichi familiari, la facoltà di godere dell’”anno familiare” dovrebbe essere estesa anche ai lavoratori maschi, che potrebbero in questo modo occuparsi dei figli allo stesso modo delle madri. In questo modo, sarebbe la famiglia a organizzare al suo interno le responsabilità genitoriali, invece di affidarle per decreto alla sola componente femminile. E se nei fatti fossero poi ancora e sempre le donne a incaricarsene – come accade tuttora per la disciplina dei congedi parentali -, beneficiando poi del bonus temporale, lo Stato almeno non avrebbe rischiato di vestire gli scomodi panni del tutore, decidendo come e quando gestire la famiglia al posto della famiglia stessa. Un passo indietro necessario, non solo in ossequio al pricipio di sussidiarietà, previsto nella nostra Costituzione; ma indispensabile per una politica che voglia dirsi realmente liberale.