Vincere in Libia anche senza un grande presidente alla Casa Bianca

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Vincere in Libia anche senza un grande presidente alla Casa Bianca

01 Aprile 2011

Non si tratta di guerra, bensì di “un’azione militare limitata negli scopi e nel tempo”. Gli Stati Uniti ne hanno assunto il comando ma stanno facendo un passo indietro, per (si suppone) passare le consegne il più presto possibile a una litigiosa coalizione di non poi così tanto volonterosi. L’obiettivo di questa “azione militare cinetica” – che dovrebbe durare giorni e non settimane, sempre che poi non duri settimane – non è un cambio di regime in Libia. Però il nostro obiettivo più ampio è rovesciare Muhammar Gheddafi. Nel frattempo, il comandante in capo tenta di mantenersi a galla nella confusione, librandosi al di sopra di un’amministrazione divisa e della sua indefinibile politica.

E anche così, probabilmente vinceremo.

L’amministrazione Obama si merita gran parte delle critiche che le sono piovute addosso, tanto per la sua condotta in Libia che per la sua passività in un periodo che, per quanto sta accadendo in Medio Oriente, può ben definirsi storico. Il presidente potrebbe non prestare la dovuta attenzione alle critiche che provengono da quelli come noi, ma probabilmente darà ascolto al consiglio che gli arriva da Leon Wieselter, su New Republic (storico giornale di area liberal, ndt):

“[Obama] ha il terrore che gli venga rimproverata la nostra ingerenza. Non essendosi verificate tutte quelle cose che ha detto sull’arrivo di un nuovo mondo, continua a sentirsi perseguitato dal fantasma dell’imperialismo… [Ma] se gli uomini e le donne che scendono in strada a Teheran, al Cairo, a Tripoli, a Tunisi continuassero davvero a pensare che le proprie sorti sono minacciate dall’imperialismo, perché mai dovrebbero implorare l’aiuto del presidente americano? E’ evidente che, per loro, i pericoli di un regime autoritario sono maggiori di quelli dell’imperialismo […] nel suo risveglio, la gente preferisce la nostra assistenza alla nostra penitenza… E’ una battaglia in cui gli Stati Uniti debbono schierarsi… E quella gente deve stare dalla nostra parte”.

Gli Stati Uniti dovrebbero senz’altro avere dalla loro parte chi si batte per la libertà. Quanta voglia abbia il presidente di rivedere i propri pregiudizi e di ripensare il suo atteggiamento verso il Medio Oriente e il mondo, non è dato sapere. Ma possiamo sperare in un cambiamento.

Nel caso della Libia, tuttavia, sospettiamo che il presidente sia conscio del fatto che noi – e lui – non possiamo permetterci di perdere. Perciò, Obama non scapperà. Né dobbiamo sottovalutare le capacità delle forze armate statunitensi, e la vulnerabilità e la debolezza di Gheddafi. E poi, bisogna onestamente considerare il fatto che gli Stati Uniti hanno già combattuto diverse guerre – e le hanno vinte – fissando obiettivi imprecisi, mandando messaggi ambigui, e contando su una leadership non proprio esaltante. Anche l’esito in Libia potrebbe essere positivo.

Naturalmente lo speriamo, e faremo tutti il possibile perché ciò accada. Nel frattempo, ecco qua un consiglio per i nostri amici conservatori: calma.

Siamo in guerra. Dobbiamo vincerla. Non lesinate critiche costruttive (per esempio, sembra ridicolo che gli Usa non stiano armando l’opposizione libica). Si prenda nota per i posteri delle oscillazioni e delle contraddizioni dell’amministrazione Obama. Ma non bisogna mettersi a dire cose che possano suggerire che l’America non possa o non debba prevalere. Non si gioisca a ogni passo falso della Casa Bianca, o a ogni dichiarazione inappropriata. Non si dia troppo risalto agli errori dell’amministrazione quando si tratta di costruire il consenso nazionale su questa missione. Si mettano al primo posto la missione, e la nazione.

Il che significa, in qualche misura, che noi conservatori dovremmo considerare l’opportunità di morderci la lingua, augurando ogni bene al presidente perché è il nostro presidente, e aiutandolo a fare la cosa giusta piuttosto che sottolineare con gioia ogni suo errore. Il che, di conseguenza, vuol dire smetterla di criticarlo a ogni ora del giorno e della notte, ogni giorno della settimana. Sosteniamo i nostri soldati e la loro missione, e diamo alla guerra una possibilità, anche se è una guerra che l’amministrazione non sta conducendo nel migliore dei modi.

Si va in guerra con il presidente che c’è. Questo non è quello che noi conservatori preferiremmo. Abbiamo buone possibilità di mandarlo via nel 2012, e su questo punto dovremo continuare a lavorare. Ma prima, mandiamo via Gheddafi e aiutiamo l’Egitto, la Tunisia, il Bahrein, lo Yemen e chissà chi altri, anche a dispetto del nostro riluttante presidente. Facciamo pressioni sulla Casa Bianca, perché si schieri dalla parte di chi, in Siria e in Iran, si oppone al regime.

La sinistra attuale si aspetta che gli Stati Uniti, le guerre, le perdano. Qualcuno, a sinistra, sembra addirittura averci messo le radici, nelle sconfitte americane. Abbiamo già argomentato su queste pagine che, nella loro espressione migliore, i conservatori di oggi – e in particolare il Partito repubblicano, che ne costituisce il veicolo – sono il partito della libertà. Sono anche il partito della vittoria. Quindi i repubblicani, al Congresso, devono votare per la vittoria, così come la sostengono nelle piazze. Dopo tutto, se vinciamo in Libia – e in Afghanistan, e in Iraq – la vittoria sarà dell’America.

© The Weekly Standard
Traduzione Enrico De Simone