
11 settembre: la fuga dal terrore ieri e oggi

11 Settembre 2015
Un fiume di gente attraversa un ponte enorme, e dietro di loro tanta polvere oscura il cielo. E’ evidente che stanno fuggendo da un grande pericolo alle spalle. I volti sono quelli del melting pot americano, persone di diverse etnie e diverso colore di pelle. Quattordici anni dopo fuggono ancora in tanti, tantissimi in più, migliaia e migliaia, per giorni, settimane. Persone di diverse etnie e diverso colore di pelle, che attraversano ponti, campi, rotaie, ma anche mari, pianure. Stanno scappando anche loro, lasciandosi alle spalle un grade pericolo.
La prima immagine è quella degli americani che abbandonano Manhattan, l’11 settembre di quattordici anni fa, quando un nemico ancora sconosciuto aveva appena realizzato l’attentato terroristico più imponente della storia. La seconda campeggia negli ultimi mesi in tutti i notiziari: sono fuggiaschi che arrivano in Europa dall’Africa e dal Medio Oriente, soprattutto da guerre e situazioni insopportabili di vita, in gran parte conseguenza di quell’11 settembre di 14 anni fa.
I tiggì italiani hanno mostrato le commemorazioni americane dell’attentato alle torri gemelle, mentre sui giornali l’anniversario è passato in sordina, almeno oggi. La stampa internazionale, dal canto suo, oltre ai ricordi ha ospitato diversi commenti sulla situazione attuale internazionale, con toni tendenti al pessimismo. Particolarmente efficace The Daily Beast, con un titolo a effetto: gli Stati Uniti dell’ISIS, molto più popolare di quanto lo sia mai stata Al Qaeda.
Quattordici anni dopo la situazione internazionale è nettamente peggiorata: se l’11 settembre del 2001 era la gente di un quartiere – se pur simbolo – di New York a scappare, adesso popoli interi abbandonano stati sostanzialmente disintegrati da guerre alimentate dal terrorismo islamico. I nomi di Siria, Iraq, Afghanistan sono lì a mostrare il fallimento occidentale nell’affrontare la minaccia terroristica, l’incapacità di comprendere quello che stava succedendo sotto gli occhi di tutti – alla faccia di internet, droni e satelliti l’Isis si è quasi materializzato dal nulla solo un anno fa – e soprattutto una sorta quasi di apatia, l’assenza di una effettiva volontà di reagire.
L’America di Obama è distante anni luce da quella di Bush, ha rinunciato al suo ruolo storico di “gendarme del mondo”, e non è stata capace di elaborare una strategia degna di questo nome in Medio Oriente, nonostante l’uccisione di Osama Bin Laden abbia simbolicamente chiuso un periodo in cui, tutto sommato, il terrorismo sembrava aver esaurito le sue energie. Anche l’accordo sul nucleare con l’Iran – obiettivo tenacemente perseguito da Obama – sembra avere più ombre che luci, e vede fra i critici più severi un alleato storico degli Usa come lo Stato di Israele.
La “distrazione” italiana sull’anniversario dell’attentato alle Twin Towers la dice lunga sulla mancata consapevolezza del legame fra quello che sta succedendo adesso e il crollo delle torri di quattordici anni fa. Certo, tante condizioni sono cambiate, anche nel fronte nemico. Ma il cuore del problema, cioè il marchio del fondamentalismo islamico, è rimasto, e con l’Isis sta mostrando una ferocia inaudita, inconcepibile, anche se quattordici anni fa i presupposti c’erano tutti: le distruzioni di Palmira seguono coerentemente quelle dei grandi Budda di pietra in Afghanistan da parte dei talebani, e il burqa imposto alle donne afghane era l’anteprima della sharia violentissima e furiosa dell’ISIS.
L’occidente europeo è sempre più fiacco, sempre più vecchio, sempre più secolarizzato, e di fronte al fiume di fuggiaschi che sta arrivando anche dal Medio Oriente stanno sorgendo nuovi fili spinati, a sbarrare confini dove non avremmo mai immaginato: Ungheria, Macedonia, ma anche Danimarca, Austria, insieme a barriere di poliziotti, come agli scogli di Ventimiglia o nel canale della Manica. E la nuova apertura tedesca di questi ultimi giorni non riesce a compensare l’arroccamento e la paura.
Siamo tutti americani, dicevamo quattordici anni fa, mentre una colonna di fuggiaschi attraversava il ponte di Manhattan. Ma quell’immagine l’abbiamo scordata, e adesso che a fuggire sono interi popoli, facciamo fatica a dirci europei.