1948: Israele e Palestina, la vera storia
16 Maggio 2008
di Efraim Karsh
A sessanta anni dalla sua nascita, stabilita per il mezzo di uno strumento giuridico di
Nello scorso decennio, la concreta eliminazione della Stato ebraico è diventato un caso di scuola per molti di questi occidentali ben informati. La “one-state solution”, come viene chiamata, è una formula eufemistica che propone la sostituzione di Israele con uno stato, teoricamente l’intero territorio della Palestina storica, in cui gli ebrei sarebbero ridotti ad essere una minoranza permanente. Solamente questa soluzione, si afferma, può espiare il “peccato originale” della fondazione di Israele, un atto costruito (secondo le parole di un critico) sulle macerie della Palestina araba e ottenuta tramite il deliberato e aggressivo esproprio della sua popolazione natia.
Questa rivendicazione circa l’esistenza di un esproprio premeditato e il conseguente
La recente opera di rimozione del segreto di stato su milioni di documenti risalenti al Mandato britannico(1920-1948) e agli albori d’Israele, precedentemente inaccessibili a generazioni di scrittori e ignorati, o distorti, dai “nuovi storici” dipingono un quadro storico molto più preciso. Questi documenti rivelano che la rivendicazione di esproprio non è solo completamente infondata, ma il contrario della verità. Ciò che segue è basato su nuove ricerche basate su questi documenti, i quali contengono molti fatti e dati che finora non erano stati pubblicati.
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A partire dai primi anni ’20, i capi degli palestinesi arabi, lontani dall’essere quegli sfortunati oggetti di un assalto predatorio sionista, furono, contro la volontà di gran parte dei loro compatrioti, coloro che intrapresero un’
La verità è che il movimento sionista fu sempre disponibile ad accettare l’esistenza nel futuro Stato ebraico di una consistente minoranza araba, che avrebbe partecipato senza discriminazioni “attraverso tutti settori della vita pubblica del paese”. Sono le parole di Ze
Undici anni dopo, Jabotinsky presiedette la stesura di una bozza di costituzione per la Palestina ebraica. Secondo le disposizioni della bozza, arabi e israeliani avrebbero condiviso sia le prerogative che i doveri dello Stato, compreso il servizio militare e civile. Ebrei e arabi avrebbero goduto dello stesso trattamento giuridico, e “in ogni gabinetto dove il primo m
Se questa fu la posizione della fazione più militante del movimento nazionale ebraico, la corrente maggioritaria del Sionismo non solo diede per scontato l’eguaglianza con la minoranza araba nel futuro Stato ebraico, ma si sforzò di promuovere la coesistenza arabo-israeliana. Nel 1919 Chaim Weizmann, allora l’emergente leader del movimento sionista, raggiunse un accordo di pace e cooperazione con l’emiro hashemita Faisal ibn Hussein, il vero capo del nascente movimento pan-arabo. Da allora fino alla proclamazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, il portavoce del movimento sionista s’incontro centinaia di volte con i leader arabi a tutti i livelli. Tra questi Abdullah ibn Hussein, il fratello maggiore di Faisal e fondatore dell’emirato della Transgiordania (in seguito il regno di Giordania), attuali ed ex-primi m
Non più tardi del 15 settembre 1947, due mesi prima dell’approvazione della risoluzione di partizione dell’ONU, due inviati sionisti stavano ancora cercando di convincere Abdel Rahman Azzam, Segretario Generale della Lega Araba, che il conflitto palestinese “stava inutilmente assorbendo le migliori energie della Lega Araba”, e che sia arabi sia ebrei avrebbero grandemente beneficiato “ da politiche attive di cooperazione e sviluppo”. Dietro questa proposta risiedeva una antica speranza sionista: che cioè il progresso materiale apportato dagli insediamenti ebraici in Palestina avrebbe facilitato il cammino delle popolazioni arabe locali verso una riconciliazione permanente, se non addirittura una positiva attitudine al progetto di auto-determinazione ebraico. Come David Ben-Gurion, prossimo a diventare il primo primo m
Se il cittadino arabo si sentirà a casa nel nostro stato… se lo stato lo aiuterà in modo veritiero e dedicato al fine di raggiungere il livello economico, sociale e culturale della comunità ebraica, allora la sfiducia araba si placherà di conseguenza e un ponte sarà costruito verso un alleanza semitica ebraica –araba.
Apparentemente, la speranza di Ben-Gurion si fondava su basi ragionevoli. Un flusso di immigrati ebrei e di capitali dopo la prima guerra mondiale stimolò la fino ad allora statica condizione economica della Palestina e migliorò la qualità della vita dei suoi abitanti arabi ben al di sopra del livello esistente negli stati arabi vic
Notevoli furono anche i progressi nel benessere sociale. Forse la cosa più significativa fu il drastico calo de tasso di mortalità tra la popolazione musulmana e le aspettative di vita crebbero dai 37,5 anni del 1926-27 ai 50 anni del 1942-1944 ( rispetto ai 33 dell’ Egitto). Il tasso di crescita naturale crebbe di un terzo.
Il fatto che nulla di tutto questo stesse accadendo nei vic
Il generale effetto benefico dell’immigrazione ebraica sul benessere arabo è illustrato dal fatto che la crescita della popolazione araba è più marcata nelle aree urbane influenzate dallo sviluppo ebraico. Un paragone sui dati del censimento del 1922 e 1931 mostrano che, sei anni fa, l’aumento percentuale ad Haifa è stato dell’86%, a Jaffa del 62%, a Gerusalemme del 37%, mentre in città puramente arabe come Nablus ed Hebron solo del 7% e a Gaza ci fu una flessione del 2 %.
Se alla grande maggioranza dei palestinesi arabi fosse stato consentito di decidere per se stessi, essi sarebbero stati molto probabilmente soddisfatti di trarre vantaggio dalle opportunità loro offerte. Questo è reso evidente dal fatto che, per tutto il periodo del Mandato, i periodi di pacifica coesistenza furono maggiori rispetto alle esplosioni di violenza, e queste ultime furono opera solo di una piccola frazione di palestinesi arabi. Sfortunatamente sia per arabi che ebrei, i desideri e le speranze della gente comune non furono prese in considerazione, come avviene raramente nelle comunità autoritarie ostili alla nozione di società civile o alla democrazia liberale. Nel mondo moderno, inoltre, non furono i poveri e gli oppressi a guidare le grandi rivoluzioni o a compiere i peggiori atti di violenza, quanto piuttosto le avanguardie militanti tra le classi della società meglio educate e più benestanti.
Così fu per i palestinesi. Nelle parole del rapporto Peel:
Abbiamo rilevato che sebbene gli arabi abbiano beneficiato dagli sviluppi del paese dovuti all’immigrazione ebraica, questo non ha avuto alcun effetto di riconciliazione. Al contrario… con quasi matematica precisione il miglioramento della situazione economica in Palestina ha significato il deterioramento della situazione politica.
In Palestina, gli arabi comuni venivano perseguitati e uccisi dai più alto-locati ( i “migliori”) nella comunità per il crimine di “vendere la Palestina” agli ebrei. Nel frattempo, quegli stessi “migliori” si arricchivano impunemente. Il leale pan-arabista Abdel Hadi, che giurò di combattere “fino a quando la Palestina fosse posta sotto un libero governo arabo oppure fosse diventata un cimitero per tutti gli ebrei nel paese”, facilitò la cessione di 7500 acri al movimento sionista, e alcuni dei suoi parenti, tutte rispettate figure politiche e religiose, andarono un passo oltre, vendendo interi lotti di terreno. Così fecero molti componenti della famiglia Husse
Fu la preoccupazione da parte del muftì di consolidare la propria posizione politica la vera ragione del massacro del 1929 in cui 133 ebrei furono trucidati e altre centinaia feriti – esattamente come la lotta per la preminenza politica che innescò il più lungo periodo di violenza palestinese-araba nel periodo 1936-39. Questa fu illustrata come una rivolta nazionalista contro il dom
Alcuni palestinesi-arabi, infatti, preferirono reagire e combattere contro i loro istigatori, spesso in collaborazione con le autorità britanniche e l’Hagana, la più grande organizzazione di difesa ebraica. Altri cercarono rifugio nei quartieri ebraici. Nonostante la paralisi provocata dall’atmosfera di terrore e uno spietato boicottaggio economico, la coesistenza arabo ebraica continuò su molti livelli pratici perfino durante periodi di tale agitazione, e fu ampiamente restaurata in seguito al loro calmarsi.
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Di fronte a un tale scenario, è facilmente comprensibile il motivo per cui la maggior parte dei palestinesi non volle avere nulla a che fare, 10 anni dopo, con il violento tentativo dell’ Alto Comitato Arabo (AHC) guidato dal muftì, l’effettivo “governo” dei palestinesi arabi, di sovvertire la risoluzione ONU sulla partizione del 1947. Con il ricordo del periodo 1936 – 39 ancora vivo nelle loro menti, molti scelsero di restare fuori dai combattimenti. In men che non si dica, numerosi villaggi arabi ( e alcune aree urbane) stavano negoziando accordi di pace con i loro vic
Nemmeno si può dire che i palestinesi comuni evitarono di sfidare silenziosamente la loro leadership. Nei suoi numerosi viaggi per la regione, Abdel Qader Husse
C’era una motivazione economica in questa ricerca di pacificazione. Lo scoppio delle ostilità orchestrato dall’ AHC provocò un marcato calo nel commercio e un correlativo aumento dei prezzi dei beni di consumo necessari. Molti villaggi, che dipendevano per la loro sussistenza dagli ebrei o sulle città con popolazione mista, non videro alcuna buona ragione nell’appoggiare l’esplicito obiettivo dell’ AHC di sottomettere gli ebrei affamandoli. Tale era la contrarietà alla guerra che all’
L’analisi di Ben Gurion fu condivisa da generale iracheno Ismail Safwat, comandante in capo dell’esercito di liberazione arabo (ALA), la forza volontaria araba che fu più combattiva nei mesi che precedettero la proclamazione d’indipendenza di Israele. Safwat lamentava che solamente 800 dei 5000 volontari addestrati dall’ALA provenissero dalla Palestina, e che la maggior parte avesse disertato prima di completare l’addestramento oppure immediatamente dopo. Fawzi Qawuqji, il comandante locale dell’ALA non fu meno caustico, trovando i palestinesi “poco affidabili, eccitabili e difficilmente controllabili, e in un conflitto armato virtualmente inutilizzabili”.
Questo punto di vista riassumeva la maggior parte delle percezioni contemporanee durante i fatali sei mesi di combattimenti seguiti all’approvazione della risoluzione sulla partizione. Anche quando questi mesi videro la quasi completa disintegrazione della società arabo palestinese, nessuno la descrisse come un sistematico esproprio degli arabi da parte d egli ebrei. Al contrario: con la risoluzione di partizione, per lo più vista dai capi arabi come “ sionista nell’ispirazione, sionista per principio, sionista nella sostanza e sionista nella maggior parte dei dettagli” (secondo le parole dell’accademico palestinese Walid Khalidi) e con quegli stessi leader brutalmente franchi nella determinazione di sovvertirne i contenuti con l’uso delle armi, non c’era alcun dubbio circa l’identità di chi aveva istigato lo spargimento di sangue.
Nemmeno si può affermare che gli arabi provarono a nascondere la loro responsabilità. Mentre gli ebrei si accingevano a preparare le fondamenta per il loro Stato nascente e contemporaneamente sforzandosi di convincere i loro compatrioti arabi che essi sarebbero stati (come aveva detto Ben-Gurion) “eguali cittad
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Essi e i loro colleghi istigatori arabi fecero del loro meglio affinché tali minacce si realizzassero, utilizzando tutti mezzi a loro disposizione. In aggiunta alle forze regolari come quelle dell’ALA, guerriglieri e gruppi terroristici provocarono distruzione sia tra non combattenti sia tra unità da combattimento ebraiche. Sparatorie, colpi dei cecch
viene colpita quando è sugli autobus, camminando per le strade e pallottole vaganti trovano persone innocenti perfino mentre dormono nei loro letti. Un donna ebrea, madre di cinque figli, fu colpita a Gerusalemme mentre stava appendendo i panni sul tetto. L’ambulanza che la stava trasportando d’urgenza all’ospedale fu mitragliato e, infine, chi partecipava al suo funerale fu attaccato e uno ad uno accoltellati fino alla morte.
Con l’aumentare del numero degli scontri, i civili arabi soffrirono a loro volta, e l’occasionale atrocità innescò cicli di violenza su larga scala. Così, l’uccisione nel dicembre del 1947 di sei lavoratori arabi, vicino alla raffineria di Haifa, perpetrata dal piccolo gruppo ebraico sotterraneo IZL fu seguito dal massacro immediato di 39 ebrei da parte dei loro colleghi arabi, così come l’uccisione di circa 100 arabi nella battaglia per il villaggio di Deir Yasin nell’aprile del 1948 fu “vendicato” nel giro di pochi giorni con l’uccisione di 77 tra infermiere e dottori ebrei sulla strada per l’ospedale Hadassah sul monte Scopus.
Tuttavia, mentre la leadership e i media ebraici descrissero questi eventi scioccanti per quello che in realtà erano, a volte non divulgando alcuni particolari al fine di evirare il panico e tenere la porta aperta alla riconciliazione arabo-ebraica, gli arabi dal canto loro non solo ingigantirono il numero delle vittime ad enormi proporzioni ma ne inventarono anche numerose che, però, non avvennero mai. La caduta di Haifa (21-22aprile) per esempio fece sorgere voci di massacri su larga scala, che circolarono per tutto il Medio Oriente e raggiunsero le capitali occidentali. Allo stesso modo, voci false furono fatte girare dopo la caduta di Tiberias (18 aprile), la battagli per Safed (nei primi di maggio) e a Jaffa dove alla fine di aprile il sindaco s’inventò un massacro di “centinaia di uom
Fomentare un atmosfera di paura servì senza dubbio per raccogliere il più ampio consenso possibile a favore della causa palestinese e proiettare sugli ebrei l’immagine di brutali predatori. Ma fu anche un boomerang disastroso, diffondendo il panico all’interno della società palestinese. Questo, a sua volta aiuta a spiegare perché nell’aprile 1948 dopo quattro mesi di apparente progresso, questa fase dello sforzo bellico arabo fallì (sebbene all’
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In verità, molti erano partiti prima ancora dell’
Facendo eco a questi rapporti, le fonti d’intelligence di Hagana riportarono come a metà dicembre “ vi fosse una frenesia di andarsene in interi villaggi arabi” Prima della fine del mese, molte città palestinesi arabe si lamentavano dei gravi problemi creati dall’enorme flusso di gente dei villaggi e richiedevano all’AHC di aiutarli a trovare una soluzione a quella difficile situazione. Perfino i governi di Siria e Libano erano allarmati da questo precoce esodo, esigendo che l’AHC incoraggiasse i palestinesi a rimanere e combattere.
Ma non vi fu nessuno immediato incoraggiamento, né dall’AHC né da nessun altro. Infatti vi era una totale mancanza di coesione nazionale, per non dire di un senso condiviso di destino. Le città grandi e piccole agirono come se fossero unità a se stanti, pensando ai propri bisogni ed evitando qualunque piccolo sacrificio a favore delle altre città. Molti “comitati nazionali” ( i capi locali cioè) proibirono l’esportazione di alimenti e bevande dalle città ben rifornite verso le città e i villaggi più isolati. I commercianti arabi di Haifa si rifiutarono di alleviare una grave mancanza di farina a Jenin, mentre Gaza si rifiutò di esportare uova e pollame a Gerusalemme; ad Hebron guardie armate controllavano tutte le auto in partenza. Allo stesso tempo vi era una estesa attività di contrabbando, specialmente nelle città a popolazione mista, con prodotti alimentari che andavano verso i quartieri ebraici e viceversa.
La mancanza di una comune solidarietà fu similarmente evidenziata dal pessimo trattamento riservato alle centinaia di migliaia di rifugiati sparpagliati per il paese. Non solo non vi fu alcuno sforzo collettivo per alleviare la loro situazione, o anche una più esteso senso d’empatia che valicasse i conf
Perfino le ultime vittime della guerra – i sopravissuti di Deir Yasin- non sfuggirono alla loro parte di maltrattamenti. Trovando rifugio nel vicino villaggio di Silwan molti furono presto ai ferri corti con i locali, al punto che il 14 aprile, appena cinque giorni dopo la tragedia, una delegazione di Silwan contattò gli uffici del AHC a Gerusalemme domandando che i sopravvissuti venissero trasferiti da qualche altra parte. Tuttavia nessuno aiuto per trovare loro una sistemazione fu immediato.
Alcune località si rifiutarono totalmente di accettare i rifugiati, per paura di gravare troppo sulle esigue risorse esistenti. Ad Acre le autorità impedirono di sbarcare agli arabi che fuggivano da Haifa; a Ramallah, la popolazione prevalentemente cristiana organizzò la propria milizia – non tanto per combattere gli ebrei quanto per impedire nuovi arrivi di musulmani. Molti sfruttarono la difficile situazione dei rifugiati in modo spregiudicato, in particolare approfittandosi di loro per quel che riguarda le necessità di base come trasporti e alloggi.
Nonostante tutto, i palestinesi continuarono a fuggire dalle loro case in numero sempre crescente. Ai primi di aprile circa 100.000 se n’erano già andati sebbene gli ebrei fossero ancora subendo dal punto di vista militare e non fossero certo in una posizione per costringere la popolazione araba ad abbandonare le loro case. ( Il 23 marzo, più di quattro mesi dopo l’
Le eccezioni avvennero al culmine delle battaglie e furono dovute a considerazioni del caso di natura militare – ridurre il numero di perdite tra i civili, negare postazioni ai combattenti arabi ove non fossero disponibili forze ebraiche sufficienti per respingerli – piuttosto che per calcolo politico. Inoltre questi episodi furono accompagnati dagli sforzi di prevenire la fuga e incoraggiare il ritorno di chi lo aveva già fatto. Per citare un solo esempio, all’
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Quello che più impressiona di questi sforzi da parte degli ebrei, è che avvennero in un momento in cui un enorme numero di palestinesi arabi erano “spinti” lontano dalle loro case proprio dai loro stessi capi e dalle forze militari arabe, sia che ciò fosse dovuto a considerazioni di natura militare sia per evitare che essi divenissero cittad
Decine di migliaia di villaggi rurali furono sgombrati allo stesso modo in seguito all’ordine dell’AHC, di milizie locali arabe o dell’ALA. Entro poche settimane dall’arrivo di questa ultima in Palestina nel gennaio 1948, voci circolavano di ord
Con l’
Per ciò che concerne il destino dei leader arabi, i quali misero i loro riluttanti connazionali su una traiettoria di collisione con il Sionismo a partire dagli anni ’20 e ’30 e che ora gli avevano trascinati indifesi in un conflitto mortale, essi si affrettarono a lasciare la Palestina e rimanendovial di fuori nel momento più critico. Seguendo l’indicazione di questi pezzi grossi, i capi locali si affrettarono in massa a lasciare il paese. L’Alto Commissario Cunningham riassunse ciò che stava accadendo con tipico sarcasmo britannico:
Voi dovreste sapere che il crollo del morale arabo in Palestina è in qualche modo dovuto all’aumentata tendenza di coloro che dovrebbero condurli a lasciare il paese… per esempio, a Jaffa il sindaco si è preso 4 gironi di vacanza 12 giorni fa e non ha più fatto ritorno, e metà dei componenti del comitato nazionale è partito. Ad Haifa i componenti arabi del municipio sono partiti tempo fa; i due capi dell’ esercito di liberazione araba (ALA) hanno lasciato il paese durante la recente battaglia. Ora anche il capo magistrato arabo è partito. In tutte le parti del paese la classe effendi ha continuato la propria evacuazione in un considerabile periodo di tempo e il fenomeno sta accelerando.
Arif al-Arifun, importante politico arabo durante il Mandato e il più autorevole tra gli storici palestinesi, descrisse questa prevalente atmosfera : “Ovunque uno andasse nel paese si sentiva ripetere questo: dove sono tutti i capi che dovrebbero mostrarci la strada? Dov’è l’AHC? Perché i suoi membri sono in Egitto in un momento in cui la Palestina, il loro paese, ha bisogno di loro?”
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Muhammad Nimr al-Khatib, un capo palestinese arabo durante la Guerra del 1948, riassunse la situazione con queste parole: “I palestinesi ebbero gli Stati arabi vic
Questa è abbastanza vero per gli ebrei, ma dimentica il motivo della fuga dei rifugiati e radicalmente falsifica la verità sulla loro ricezione altrove. Se non ricevettero la solidarietà dai loro compatrioti a casa, la reazione attraverso il mondo arabo fu, se possibile, ancora più aspra. Ci furono ripetuti richiami per il ritorno forzato dei rifugiati, o per lo meno dei giovani uom
Il governo siriano prese provvedimenti ancora più stringenti, proibendo l’accesso sul proprio territorio dei maschi palestinesi tra i 16 e 50 anni. In Egitto, una gran numero di manifestanti marciarono verso la sede della Lega Araba del Cairo presentando una petizione che prevedeva “per ogni palestinese abile e in condizione di maneggiare armi il divieto di rimanere all’estero”. Tale era il risentimento contro i palestinesi rifugiati che il direttore dell’istituto di educazione religiosa al-Azhar al Cairo, probabilmente la più importante autorità islamica, si sentì in dovere di emettere un decreto che faceva della protezione dei rifugiati un dovere religioso.
Il disprezzo per i palestinesi crebbe con il tempo. “La paura ha colpito i palestinesi arabi e sono scappati dal loro paese”, commentò Radio Baghdad la sera precedente l’invasione pan-araba di metà maggio del neonato stato d’Israele. “Queste sono parole dure veramente, tuttavia sono vere”. Il m
Non c’è da sorprendersi allora che così pochi tra i rifugiati palestinesi avessero biasimato il loro crollo ed diaspora sugli ebrei. Durante una missione di ispezione nel giugno 1949 Sir John Troutbeck, capo dell’Ufficio del Medio Oriente britannico al Cairo, e non un amico d’Israele o degli ebrei, fu sorpreso nelloscoprire che mentre i rifugiati
non esprimono risentimento contro gli ebrei ( o contro gli americani o contro di noi ) parlano con grandissima amarezza degli egiziani e degli altri stati arabi. “Noi sappiamo che è il nostro nemico” diranno, e si riferiscono ai loro fratelli arabi che, dichiarano, gli persuasero senza necessità a lasciare le loro case… Ho perfino sentito che molti dei rifugiati darebbero il benvenuto agli ebrei se fossero in procinto di conquistare il loro distretto.
Sessanta anni dopo il loro esodo, i rifugiati del 1948 e i loro discendenti rimangono negli squallidi campi dove sono stati tenuti per decenni dai loro compatrioti arabi, allevati nell’odio e in false speranze. Nel frattempo, i loro precedenti capi hanno sperperato tutte le successive opportunità d’indipendenza.
É davvero una tragedia per i palestinesi che i due leader che hanno segnato il loro sviluppo nazionale nel corso del ventesimo secolo – Hajj Amin Husse
Invece, Arafat trasformò i territori posti sotto il suo controllo negli anni ’90 in un vero e proprio stato del terrore da cui egli lanciò una guerra totale ( la “intifada al-Aqsa”) subito dopo aver ricevuto l’offerta di uno stato indipendente palestinese nella striscia di Gaza e nel 92% della Cis-Giordania, con Gerusalemme Est come sua capitale. Nel corso della sua azione, egli sottopose, la popolazione della Cis-Giordania e della Striscia di Gaza ad un regime repressivo e corrotto nella peggiore tradizione della dittature arabe e sprofondò i loro standard di vita a livelli mai prima raggiunti.
Ciò che rende tutta questa situazione ancora più irritante è il fatto che Hajj Amin ed Arafat, tutt’altro che sfortunate aberrazioni, furono classici esempi di leader c
Sei decenni dopo che il muftì e i suoi tirapiedi, rifiutando la risoluzione sulla partizione dell’ONU, condannarono la propria gente a vivere senza uno stato, le loro irresponsabili decisioni sono ripetute dalla presente generazione di leader palestinesi. Questo si applica non solo ad Hamas, che nel gennaio 2006 ha sostituito l’OLP alla guida dell’Autorità Palestinese, ma anche alla cosiddetta leadership moderata palestinese – a partire dal Presidente Mahmoud Abbas fino ad Ahmad Qureia (negoziatore degli Accordi di Oslo del 1993) e a Saeb Erekat, al primo m
E così è per gli anti-sionisti occidentali che in nome della giustizia, nientemeno, richiedono oggi non una nuova e fondamentalmente diversa leadership araba, ma di smantellare lo Stato ebraico. Solo quando queste indoli cambieranno, i palestinesi arabi potranno realisticamente sperare di porsi alle spalle questa catastrofe auto-inflitta.
Efraim Karsh è a capo degli Studi Mediterranei del King’s College, University of London, e di recente autore de “ Imperialismo islamico: una Storia” (Yale) Questo articolo appare nel numero di maggio di Commentary.