2/ La democrazia liberale non è per tutti

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

2/ La democrazia liberale non è per tutti

2/ La democrazia liberale non è per tutti

14 Marzo 2008

Nell’articolo
della scorsa settimana, nell’individuare i tratti salienti della democrazia
liberale, ho cercato di darne una definizione fatta per mettere d’accordo sia i
liberali conservatori – da Edmund Burke a John Adams – sia i liberali
progressisti – da Jefferson a Stuart Mill. I secondi, nell’Ottocento, avrebbero
forse ritenuto i sei punti messi a fuoco necessari ma non sufficienti ma non
avrebbero avuto alcun dubbio sul primato della “libertà negativa”. Da tempo,
invece, quel primato, nella political culture
prevalente nel nostro paese, sembra vacillare. Alla “libertà da”, ritenuta
irrinunciabile ma da sola astratta e illusoria (lo aveva già “denunciato” Marx
più di un secolo e mezzo fa!) si affianca non come ancella bensì come
comprimaria la “libertà di”, sulla base di un modo di argomentare che
si richiama a un buon senso talmente scontato da diventare sospetto. Per il
liberale classico la berliniana “libertà da” è il fine, è il valore più alto
iscritto nella “saggezza dell’Occidente”, laddove la “libertà di” – ovvero la
disponibilità di risorse materiali ed educative – è uno strumento: la prima sta
sul piano elevato dei principi etico-giuridici, la seconda sta, per così dire,
su un piano empirico, “sociologico” – quello che porta a far rilevare
(giustamente) come sia difficile, se non impossibile, l’esercizio pratico di un
diritto se non si è nelle condizioni di poterne godere. Ne consegue che, se
alla costituzione – a una costituzione che prenda sul serio la “filosofia
liberale” – si affida la proclamazione solenne dei diritti che derivano dalla
‘libertà da’, alla legislazione ordinaria si delegano – e possono raccomandarsi
nello stesso testo costituzionale – le misure concrete per renderli effettivi, “alla portata di tutti”. Sennonché l’ovvia constatazione che al paralitico poco
importa il fatto che nessuno gli impedisca di circolare nel parco pubblico se
non possiede una protesi o una carrozzina sta diventando il ponte di passaggio
ad una riva che non è più quella liberale bensì quella democratica o socialista
o cattolico-sociale o corporativista, tutte concezioni legittime della
convivenza civile ma distanti dal mondo di Constant e di Tocqueville. La
letteratura al riguardo è tanto sterminata quanto monotona.

Esempio da manuale dello stile di pensiero in esame
è il commento di Giovanna Zincone alle tesi contenute nel saggio di Norberto
Bobbio, Eguaglianza e libertà. “L’ideale
dello Stato liberale, quale è espresso in
modo paradigmatico da Kant – vi si
legge – è “l’ideale dello Stato in cui tutti i cittadini godano di un’uguale
libertà, cioè siano ugualmente liberi,
o uguali nella li­bertà”. E già questo mi pare un bel nesso lo­gico tra uguaglianza e libertà. Ma non sarebbe sufficiente a sostenere la mia tesi, perché per uguaglianza si intende non solo uguaglianza formale, ma anche sostanziale, materiale, un’ugua­glianza nella fruizione di beni e servizi. I
liberali­ delle generazioni successive hanno pro­veduto a rendere il nesso tra libertà e
un certo tasso di uguaglianza sostanziale
indissolubile. I liberali democratici,
pensiamo, in tempi di­versi, a Stuart Mill, a Keynes, a Thomas Mar­shall, a Robert Dahl hanno visto l’impossibi­lità pratica di esercitare la libertà in assenza di
un minimo di uguaglianza materiale.
Le persone sono libere perché godono
di quella che
Bobbio definisce uguaglianza
giuridica, perché e quando non si trovano in quella condizione di privazione di tutela del diritto che caratte­rizzava gli schiavi, ma – aggiungerei – in parte anche i servi e le
donne e, ancor oggi, i minori all’interno
della famiglia. Le persone sono li­bere
perché godono dell’uguaglianza
di fronte alla legge che li emancipa
dalla costrizione dei ceti, dalla chiusura in gruppi giuridicamente discriminati. Ma lo sono anche perché godono di quella che Bobbio definisce libertà dal bisogno che
è una forma di uguaglianza materiale mi­nima. Le persone non possono esercitare il di­ritto alla libertà di opinione se non possono
formarsi opinioni; non possono esercitare il diritto all’autodeterminazione, a formare cioè le leggi che dovranno osservare, se sono privi di istru­zione,
stremati da orari e condizioni di lavoro abbrutenti”.

In sostanza, viene
ribadito, la “fame” (in senso lato) e l’analfabetismo rendono il certificato di
cittadinanza politica un mero chiffon de
papier
. Elementare, Watson! Ma resta pur sempre incolmabile la differenza
tra la titolarità di un diritto e i mezzi che consentono di farlo valere: la
prima non impedisce il reperimento dei secondi – se ho la libertà di fondare un
periodico ma non ho il denaro sufficiente per farlo, come nessuno m’impedisce di
trovare sede, collaboratori e rotative, alla stessa maniera nessuno m’impedisce
di reperire, tra parenti, amici, compagni di lotta politica, enti pubblici e
privati, i fondi necessari all’impresa; al contrario, il possesso (peraltro
molto ipotetico) dei secondi non serve, certo, a farmi conquistare la prima:
nei regimi totalitari che ammettono la proprietà privata, come quello nazista,
a nessun aristocratico, a nessun magnate dell’industria, a nessun banchiere i
soldi sarebbero potuti servire per aggiungere un quotidiano libero e
indipendente ai tanti al servizio del Ministero della Propaganda. Ne deriva che
nella pisside liberale, contenuta nel sancta
santorum
delle “libertà dei moderni”, c’è posto solo per l’ostia della “libertà da”: il fine non va confuso con il mezzo, anche se una società ricca e
affluente ha, poi, il dovere di interessarsi al benessere dei cittadini e ai
loro bisogni – con l’avvertenza, però che questi ultimi non sono affatto
univoci, se si considera che variano a seconda dei tempi e dei luoghi e che ce
ne sono di fondamentali ai quali non si vede come possa provvedere la collettività. (Il desiderio sessuale, nei giovani, può essere sconvolgente al punto da
impedire, proprio come il digiuno coatto, qualsiasi concentrazione su problemi
che vadano al di là del ‘personale’: in questo caso, lo stato ,che può dare da
bere agli assetati, da mangiare agli affamati, può dare istruzione agli avidi
di conoscenza, come potrebbe venire incontro a quanti non riescono a placare i
loro naturali’ bollenti spiriti’?).

Intellettuali di indubbio
valore, come Giovanna Zincone, possono dire che il treno liberale è oggi solo in
parte utilizzabile e che, per arrivare alla “città del sole”, occorre pensare
ad altri più ampi, confortevoli e generosi convogli ferroviari: non possono,
invece, mettere vino nuovo nei vecchi otri, allargando un’antica categoria, con
ottimo stato di servizio, fino a renderla irriconoscibile.

Nei suoi saggi, la sociologa politica si rifà
a un’illustre tradizione politica italiana che già negli anni lontani del
Risorgimento s’era posta il problema del rapporto  libertà/uguaglianza, liberalismo/ democrazia,
risolvendolo spesso in una endiadi. E’ la tradizione che arriva al socialismo
liberale di Carlo Rosselli, al liberalsocialismo di un’indimenticabile maestro
come Guido Calogero, all’azionismo del suo prestigioso collega torinese
Norberto Bobbio e che, con il crollo del comunismo sovietico, par diventata,
per così dire, “senso comune”. Si tratta di una “scuola di pensiero” alla quale
molti della mia generazione (ed io per primo) debbono il loro apprendistato
etico-politico, l’abito del ragionare, il gusto dei classici. E tuttavia gli
equivoci concettuali di quella scuola (le riflessioni di Giovanna Zincone ne
sono una chiara prova), la sovrapposizione di valori diversi, l’embrassons-nous dei valori politici – cui
spesso non corrisponde alcuna attitudine critica dinanzi a eventi e personaggi
della politica contemporanea – hanno fatto del “racconto azionista”, come ho
spesso fatto rilevare in altri interventi, il cavallo di Troia per
riaccreditare e rilegittimare i nemici storici del liberalismo.

Si pensi al lavoro intellettuale
di una rivista d’area come Micromega, divenuta il centro di raccolta di uno schieramento
progressista che ricomprende i numerosi reduci del gobettismo ovvero “l’ala
sinistra del liberalismo italiano” – filosofi del diritto, giuristi, filosofi
politici, letterati, storici, opinionisti, sociologi, tutti iperciritici del “sistema”. All’origine del gobettismo, lo rilevava acutamente nel 1989 Ernesto
Galli della Loggia, c’era la “scommessa” “sul
gramscian-comunismo, a scapito del riformismo socialdemocratico; nonché
il disegno, nell’ambito di questa scommessa, di offrire i propri intellettuali al
nuovo Principe nel compito di mentori e
mediatori tra le fresche ma rozze energie di questo e l’universo democratico-liberale, con i suoi acquisti preziosi da
conservare e trasmettere”.

Fedele alla
consegna, in un suo scritto recente il direttore, Paolo Flores d’Arcais, è
giunto a sostenere che dal momento che “la democrazia liberale è autos-nomos, sovranità di cittadini di darsi da sé la legge. E di cittadini concretamente esistenti, di tutti e di ciascuno”, un voto libero ed eguale comporta “condizioni materiali
e culturali di autonomia per
tutti e per ciascuno.
|…| Politiche
sostantive di welfare radicale (indipendenza da bisogno), imparzialità e pluralismo televisivo, scuola repubblicana ed educazione permanente, sono perciò pre-condizioni del voto libero ed eguale. Come tali, andrebbero garantite in Costituzione,
sottratte all’alea delle maggioranze.|…| L’elenco sarebbe molto lungo.
Misure permanenti iperlibertarie e iperprogressiste
sono insomma il trascendentale di una Costituzione liberale, perché questa «folla» di politiche sostantive altamente esigenti e radicali sul piano sociale e culturale
costituiscono le condizioni di possibilità del minimo procedurale ‘una testa, un voto’”. In
altre parole, finché “tutti e ciascuno” non saranno sullo stesso piano, quanto
a risorse materiali e culturali, non può esserci “democrazia liberale”.

Ma chi sarà in grado di prendere quelle “misure
permanenti iperlibertarie e iperprogressiste” che sono “il trascendentale di
una Costituzione liberale”. Un programma così ambizioso – e, si ammetterà, tutt’altro che originale – richiede,
infatti, una mobilitazione totale della società civile impensabile senza una “rivoluzione permanente”, con tutti i conflitti politici e le lacerazioni
sociali che questa comporta. E’ l’ennesimo ossimoro dell’italica “fabbrica
delle ideologie”: il “giacobinismo libertario”! Oggi esso chiede una “folla di politiche sostantive altamente esigenti
e radicali sul piano sociale e culturale” in nome di un individualismo prossimo
a un anarchismo quasi stirneriano e, sulle orme del suo antenato storico, non è
affatto disposto, in tema di diritti, a sottoporre i suoi ambiziosi progetti al
volubile gioco delle maggioranze (ora come ora, influenzabili dalle “forze del
privilegio e del conformismo” che riducono la democrazia a flatus vocis). E non basta giacché, raggiunto l’obiettivo, la Costituzione è tenuta
a blindare la miriade di diritti attribuita a ogni singolo individuo al fine di
sottrarre alla conta dei voti ogni possibilità di marce indietro (implicita delegittimazione,
quindi, della destra!).

Dietro il
conflittualismo libertario – è l’esito paradossale di un discorso siffatto – spunta,
l’ombra di un quietismo che sarebbe parso soffocante persino ai sudditi più devoti
del Papa-Re. Nella visione di Flores d’Arcais, che pur si richiama ad Hannah
Arendt, le issues più importanti
dello scambio sociale vengono, coerentemente, “giuridicizzate” e, quindi,
escluse dalla competizione politica, col risultato che non si riuscirà più a
capire su cosa debba dibattere l’agora posto che sui diritti
fondamentali (e se ne prevedono milioni…) la discussione è chiusa. A questo
punto, a completare il quadro, rimarrebbe solo il ripristino del termine “magistratura” per indicare la classe dirigente di una res publica, fatta per piacere a quanti vorrebbero che tra il
tribunale, il palazzo del governo e la scuola non ci fosse alcuna “divisione di
carriere”. Se poi si chiede quale maggioranza sia legittimata per guidare il
paese in quest’avventura, ci si imbatte in un altro paradosso ancora, consistente
nella surrettizia riabilitazione di quella “volontà generale” che
l’individualista libertario e welfarista
aveva messo al bando ( in odio ad ogni forma di organicismo’): non avendo una
maggioranza di destra alcuna legittimazione “democratica liberale”, infatti,
bisogna fare affidamento sulla sanior
pars
ovvero sui cittadini liberi e virtuosi. Ma non era a loro che si
riferiva Rousseau con la sua “volontà generale”?

1/ La democrazia liberale non è per tutti