Aldo Moro, la storia dimenticata
11 Maggio 2008
di Gianni Donno
Dalla saga della fermezza alla saga del
pentimento. A trent’anni di distanza dall’assassinio di Moro e dei cinque
agenti della scorta, si è passati dalla Ragion di Stato alla Ragion Privata.
Come definire, infatti, i pentimenti, resi pubblicamente, di Cossiga, di
Ingrao, di Fassino e di tutta una schiera di personaggi delle istituzioni e di
numerosi brigatisti? Insomma: continua in forme diverse la saga del
catto-comunismo, che segnò successive fasi: il terrorismo, a cui il mondo
cattolico fornì il braccio armato e qualche mente; la fermezza, per cui lo
Stato dettò la suprema norma morale; il perdonismo (gozzinismo), in base al quale chi vince si dimostra poi
clemente (variante, questa, dello Stato inteso come presidio di moralità); il
pentimento, infine, a completare il circuito perverso -degno d’analisi
psichiatrica- dei cattopuntocom.
Infatti quale morale si può mai individuare in
quel circuito, che va dalla pistola alla lacrimuccia? La risposta agli
analisti.
Nel trentennale della morte di Moro il tema
ancora in discussione è “trattativa sì, trattativa no”. In questo continua ad
esercitasi la migliore Ipocrisia nazionale. Mentre invece aperte rimangono le
ferite pubbliche e private, che non sono affatto i “misteri”, veri o fasulli,
del caso Moro, ma due temi, complementari, su cui la gran parte degli
osservatori sorvola, nicchia. Ed essi sono il perdonismo (gozzinismo), con la
faccia speculare del fiancheggiamento morale.
Il gozzinismo (dalla legge Gozzini, su sconti
di pena per pentiti o dissociati) è la perfetta proiezione giudiziaria del
catto-comunismo. Colpa, pena e perdono vi si confondono in modo stomachevole.
Naturalmente non si tratta di discutere sul piano giurisprudenziale la famosa
legge: chiunque dimostrerebbe che lo Stato ne ha tratto un vantaggio, perché
molti terroristi hanno parlato, con la prospettiva degli sconti di pena. Ma la
domanda, subito dopo, è la seguente: Lorsignori hanno detto tutto? O, come nel
caso di Moretti, hanno, con ogni evidenza, detto ciò che volevano, e taciuto
molto altro ancora?
Perché è certo che molti brigatisti pentiti, o
dissociati, hanno taciuto su numerosi aspetti della vicenda. Ascoltammo Germano
Maccari, il giovane “quarto uomo” di via Montalcini. Non si è mai saputo se sia
stato lui il materiale omicida di Moro, visto che in quel garage, la mattina
del 9 maggio, i brigatisti si impappinarono (qualcuno inceppò l’arma, un altro
scoppiò a piangere) e il giovane Maccari avrebbe risolto lui, con giovanile
prontezza, la questione.
Ma, nel corso dell’audizione in Commissione
stragi, Maccari, che era stato catturato ben 14 anni dopo il fatto, chiedeva
l’indulto o addirittura l’amnistia. Era un uomo, non più un giovane, cambiato,
messa su famiglia e figli, chiedeva la clemenza per i gravi errori di gioventù.
Un esponente del Pds gli chiese di contraccambiare la possibile generosità
dello Stato (in quelle settimane della metà del 2000 si parlava nuovamente di
provvedimenti di clemenza), chiarendo alcuni fatti ancora rimasti oscuri. Non
gli fu chiesto di riferire dei nomi. Ma Maccari si irrigidì e si rifugiò in una
serie di “non ricordo” o di silenzi. Era chiarissimo che in lui fosse scattata
l’antica solidarietà brigatista, fra compagni di lotta, che prevaleva sulle
esigenze dello Stato, della pubblica opinione, cioè dei cittadini. Andò via fra
lo sgomento della Commissione, morì d’infarto in carcere due anni dopo.
Il tema della solidarietà con il terrorismo,
del fiancheggiamento materiale morale che esso ricevette, è il secondo aspetto
della questione.
In Italia è stata contemplata, ed applicata
con pene, un’ipotesi di reato non presente nel Codice: “concorso esterno in
associazione mafiosa”. Mai si è parlato di prevedere il “concorso esterno in
associazione terroristica”! E la ragione è fin troppo ovvia. Parte significativa
del mondo politico, intellettuale e giornalistico fiancheggiò allora, ed in
buona misura ancor oggi fiancheggia, il terrorismo eversore o i suoi cascami.
Come giudicare il professor Franco Piperno, che, in Commissione stragi, afferma
di aver partecipato, pochi giorni dopo l’assassinio di Moro, ad una riunione
con brigatisti, in una casa altolocata di piazza Cavour a Roma, per discutere
della situazione? E alla domanda del presidente Pellegrino, su quali fossero i
nomi degli altri convenuti, risponde di non ricordarli e che comunque non li
avrebbe mai rivelati, “perchè in me agisce una norma morale che è superiore a
qualsiasi legge”? Di quanti Piperno grandi e piccoli, simpatizzanti o
fiancheggiatori, si è giovato il terrorismo brigatista? Tutto normale?
Tutto
normale che il professor Romano Prodi abbia riferito a suo tempo di aver avuto
il nome “Gradoli” nel corso di una seduta spiritica? In altre democrazie, prive
dell’ipocrisia pubblica del catto-comunismo, un personaggio del genere sarebbe
caduto nel pubblico discredito e non sarebbe certo divenuto per due volte
presidente del Consiglio dei ministri!
Il fiancheggiamento morale del terrorismo
omicida continua ancor oggi. Molti brigatisti vanno a spasso per l’Italia a
tener pubbliche conferenze. Altri sono nelle istituzioni. A costoro un ampio
manipolo di intellettuali, uomini politici e giornalisti tiene bordone, spesso
soltanto per la ricerca di pubblicità riflessa.
Lasciamo, quindi, in pace Moro e la memoria di
lui. Parliamo di perdonismo e di complicità morali, vera vergogna italiana.