Se non vuoi la guerra, parla di guerra

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Se non vuoi la guerra, parla di guerra

01 Marzo 2007

Poco prima dell’inizio della guerra in Iraq, nel 2003, feci una proposta che sfortunatamente non ebbe seguito su alcun versante del dibattito occidentale su quella crisi. Sostenevo allora che il Presidente George W. Bush avrebbe dovuto dire agli europei che aveva la reale determinazione a invadere l’Iraq, ma che avrebbe potuto essere dissuaso da più severe sanzioni e da uno sforzo reale a contrastare la minaccia del regime di Saddam. Quegli europei e anche gli altri, che volevano a tutti i costi evitare la guerra, avrebbero dovuto di conseguenza essere più stringenti ed efficaci nel costringere Saddam Hussein a mantenere i suoi impegni. L’Iraq sarebbe stato posto sotto maggior controllo e molte sofferenze si sarebbero evitate. Questa elementare idea ha ancora un senso. Lo scrittore romano Vegezio sosteneva saggiamente: “Lascia che colui che vuole la pace prepari la guerra”. Vuol dire che essere forti ed essere visti come determinati esercita una tremenda deterrenza su coloro che vorrebbero attaccarti. Questo semplice principio è spesso dimenticato da chi, in occidente, crede che il modo migliore per scongiurare l’aggressione dei movimenti o dei regimi radicali, sia quello di assicurarli su quanto fortemente si voglia evitare una guerra.

Purtroppo questa posizione produce solo guai. E’ invece vero l’opposto: “Parla con dolcezza e impugna un grosso bastone”, diceva il presidente Roosevelt. Ma il requisito essenziale affinché questa strategia funzioni è che tutti sappiano che si possiede un grosso bastone. Mettere tutti i propri sforzi nel dimostrare di essere dei bravi ragazzi che non vogliono far male ad alcuno è un’eccellente idea se dall’altra parte ci sono altri bravi ragazzi. Ma quando l’avversario è malintenzionato, è un estremista radicale e un aggressore, questo approccio risulta disastroso. Voglio però aggiungere qui un altro elemento, seppure correlato al precedente. La responsabilità di coloro che vogliono evitare le guerre non consiste solo nel criticare coloro che sono più determinati. Occorre anche che si fornisca un’alternativa credibile nell’affrontare la stessa minaccia. E se questa non funziona si deve essere pronti ad affrontare le conseguenze. Considerate, ad esempio, la rincorsa dell’Iran per armi nuclerari e per missili in grado di lanciarle a grandi distanze. L’Iran ha investito un immenso ammontare di risorse e di capitale politico a questo scopo e come la storia degli ultimi tre anni dimostra, non è intenzionato a rinunciarvi facilmente o solo in virtù delle belle parole dell’occidente. E’ un chiaro caso in cui la “soft diplomacy” non funziona.

C’è un’altra opzione? Molte persone, e qualche buona ragione, pensano che non sarebbe una buona idea se gli Usa o Israele attaccassero le installazioni nucleari iraniane. Probabilmente a quelle stesse persone non piacerebbe se l’Iran usasse in futuro le sue armi nucleari contro gli Usa, Israele, i paesi del Golfo o altri. Ma, a meno che non trovino qualcos’altro che non siano quelle misure diplomatiche così morbide da somigliare ad una presa in giro – una sorta di appeasement appena camuffato –  , le conseguenze saranno molto spiacevoli. Il wishful thinking riguardo alle intenzioni iraniane è poco produttivo. I leader iraniani continuano a proclamare ciò che faranno quando avranno quelle armi. Un esempio recente è apparso lo scorso 22 gennaio sul giornale Kayahn, dove si leggeva: “I soldati americani (in Afghanista e in Iraq) sono alla portata delle nostre armi. E quando i nostri potenti missili saranno lanciati dall’Iran, Israele diventerà un inferno di fuoco per i sionisti” (traduzione del MEMRI). L’unica alternativa è persuadere l’Iran che l’occidente è determinato, che Cina e Russia e la maggior parte dei governi arabi sono pronti a sostenere sanzioni serie e vere penalizzazioni se Teheran non smette di gettare carbone nella locomotiva in corsa che sta trascinando il treno della politica mondiale verso il  disastro.

Questo significa, tra l’altro, che i governi devono smettere di sostenere le compagnie nazionali nei loro affari con l’Iran; significa inviare segnali di supporto verso l’opposizione interna al regime; significa innalzare la produzione di petrolio, inducendo così l’abbassamento del prezzo del barile che è alla base  dell’economia iraniana. Una simile sistematica strategia è l’unica via per evitare un serio conflitto militare, e magari per indurre una svolta nell’equilibrio di potere che ora favorisce i regimi radicali e i terroristi in Medio Oriente. Ci sono molti parallelismi negli altri tre principali conflitti in corso in MO. Il rifiuto di usare un approccio più severo con la Siria, a causa delle sue attività terroristiche in Libano, e con le forze islamiste che in quel paese sono sul punto di suscitare una nuova guerra civile o una nuova guerra israelo-libanese, o entrambe. Con le forze dell’Onu  e l’Occidente che stanno a guardare mentre Hezbollah si riarma. Potrebbe non passare molto tempo per il giorno in cui un “misteriosi” terroristi comincino ad attaccare le truppe Onu nel sud del Libano per convincere i paesi membri alla fuga.

Una diplomazia più determinata è dunque necessaria anche per stabilizzare il Libano, per mostrare ai radicali che il mondo non tollera la loro presa del potere e per fermare l’influenza siriana. Riguardo ai palestinesi, l’Occidente ha generalmente rifiutato aiuti diretti verso il gruppo islamista terrorista di Hamas. Ma non è un segreto che molti governo europei stanno cercando il modo per finanziare quel gruppo che userebbe i finanziamenti per lanciare attacchi terroristici o per insegnare ai bambini palestinesi che gli ebrei sono animali da sterminare. Ci sono molti altri esempi di questo tipo di situazione. Basti pensare all’Iraq. Persino quando i paesi occidentali fanno la cosa giusta, i governi – e gran parte delle elites – ce la mettono tutta per mostrare che ben volentieri lascerebbero correre senza far nulla. Tanto da dare la netta sensazione ai nostri avversari che basti tirarla per le lunge e continuare a minacciare, per fiaccare la poca determinazione delle democrazie. Per coloro che non vogliono una guerra innescata o dai radicali o dalla risposta – magari affrettata -delle loro potenziali vittime, non c’è alternativa rispetto ad una diplomazia più dura, sanzioni reali, e fermezza delle posizioni. La guerra uccide ma altrettanto fa l’appeasement e la passività .

Barry Rubin è direttore del Global Research in International Affairs (GLORIA) e dirige il  Middle East Review of International Affairs (MERIA) Journal e i Turkish Studies