E’ crisi con il Ciad mentre i ribelli attaccano il regime di Khartoum
19 Maggio 2008
di Anna Bono
Cresce in troppi stati africani il rischio di destabilizzazione e proprio nelle regioni al di sopra dell’equatore in cui sono maggiori la diffusione di cellule terroristiche e l’influenza del fondamentalismo islamico: quelle stesse in cui, dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno intensificato le attività di contrasto ai gruppi terroristici locali e internazionali per impedire che approfittino dei conflitti tribali, civili e di frontiera e dello scarso controllo statale sugli estesi territori marginali per organizzare delle reti di cellule capaci di coordinare azioni militari transnazionali.
Ma secondo il governo sudanese l’impresa è stata possibile grazie specialmente all’aiuto del vicino Ciad, dove sono rifugiati circa 240.000 darfurini, da anni accusato di sostenere i movimenti antigovernativi sudanesi o almeno quella parte costituita dall’etnia zaghawa presente anche in Ciad e alla quale appartiene lo stesso presidente ciadiano, Idriss Déby. A sua volta quest’ultimo ritiene che Khartoum appoggi i movimenti armati che lo vorrebbero spodestare e che all’inizio dell’anno hanno attaccato la capitale N’djamena, fallendo di poco un tentativo di colpo di stato. Così, per l’ennesima volta, i due paesi hanno interrotto i rapporti diplomatici e richiamato i rispettivi ambasciatori: ed è soprattutto questa nuova crisi ad allarmare per le possibili ripercussioni sull’area geopolitica circostante che comprende stati già in difficoltà come la Repubblica Centroafricana, il Camerun e il Niger.
Mediatori e donors si sono quindi subito attivati per appianare le tensioni tra i due stati e per riavviare i colloqui che dovrebbero portare a nuovi negoziati tra el Bashir e i movimenti antigovernativi. Ma la storia del Sudan è un esempio della sostanziale impotenza degli organismi internazionali in situazioni del genere. Il progetto di arabizzazione, avviato da el Bashir all’indomani del colpo di stato che nel 1989 lo ha portato al potere, è costato la vita a milioni di suoi connazionali, prima nelle regioni del centro sud e ora in quelle occidentali, ed è tanto se le organizzazioni umanitarie hanno potuto intervenire per assistere la popolazione, cosa non sempre consentita dal regime. Ci sono voluti anni prima che l’ONU accettasse di qualificare come ‘genocidio’ quanto sta accadendo in Darfur e anche dopo in sostanza nulla è cambiato. Senza esito è stato pure l’intervento del Tribunale penale internazionale che a febbraio del 2007 ha incriminato un ministro e un alto ufficiale dell’esercito sudanesi di violazioni gravi dei diritti umani per il ruolo giocato in Darfur contro le etnie di origine africana. La prevedibile risposta di Khartoum è stata che il Sudan dispone di tutti i mezzi per amministrare la giustizia.
Quanto al Sud, perseguitato dalla leadership araba di Khartoum per oltre vent’anni, con gli accordi di pace del 2005 ha conquistato l’autonomia amministrativa – ha una sua capitale, Juba – e l’ingresso dell’Splm nel governo in cui il suo capo Salva Kiir detiene la carica di vicepresidente. Tuttavia restano insolute questioni militari d’importanza determinante, tra le quali il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti antigovernativi e la costituzione di un esercito unificato. Inoltre crea attriti crescenti la definizione dei confini tra Nord e Sud e in particolare la collocazione della regione centrale di Abyei, ricchissima di giacimenti di petrolio, rivendicata sia da Khartoum che da Juba. Proprio in questa regione il 13 maggio si è verificato l’ultimo di una serie di scontri armati che dal 2005 vedono come protagonisti l’esercito governativo, l’Splm e i miliziani di alcune etnie arabe locali.
Le tensioni si sono poi acuite da quando, dopo diversi rinvii, è iniziato il censimento della popolazione in vista delle elezioni del prossimo anno, ma soprattutto del referendum del 2011 con il quale il Sud, in base al trattato di pace, dovrà decidere se continuare a far parte del Sudan oppure diventare indipendente. L’Splm voleva rimandare il censimento perché oltre due milioni di sud sudanesi sono ancora profughi o sfollati al nord, senza contare l’incertezza sui confini interni e le carenze infrastrutturali che rendono difficile raggiungere l’intera popolazione: tutti fattori che comprometteranno l’attendibilità del rilevamento demografico.
Al momento in Sudan operano due missioni ONU: la Unmis, creata per vigilare sull’applicazione degli accordi di pace del 2005, e la Unamid, in Darfur, appena inaugurata dopo un lungo tira-e-molla con el Bashir, che ha inglobato l’inefficiente missione Amis dell’Unione Africana, operativa dal 2004, e che a pieno regime dovrebbe poter contare su circa 27.000 unità. Ma intanto, da quando produce petrolio, el Bashir si è ulteriormente rafforzato grazie alla Cina, che acquista il 60% del suo greggio e lo difende in sede di Consiglio di Sicurezza.