La meritocrazia è una cosa seria, non facciamola diventare una passerella

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La meritocrazia è una cosa seria, non facciamola diventare una passerella

10 Giugno 2008

Ne parlano tutti, ormai persino qualche sindacalista illuminato. Merito sta diventando addirittura una parola abusata. E per ciò stesso – diciamolo – quasi irritante. Già perché in Italia pare improvvisamente scoppiata la moda della meritocrazia.

Dalla neoeletta alla presidenza dei Giovani di Confindustria Federica Guidi, che in un’intervista sul Magazine del Corriere della Sera e nella relazione al convegno dei Giovani industriali di Santa Margherita Ligure il fine settimana appena trascorso, ha battuto con forza sul tasto del merito e sulla possibilità che deve essere data alle aziende di poter premiare i migliori. Anche attraverso la contrattazione ad personam, e comunque superando il modello di quella collettiva, antistorica e – questa sì – generatrice di caste. Al ministro Renato Brunetta, partito giustamente lancia in resta contro l’esercito dei fannulloni annidati nella pubblica amministrazione, minacciando licenziamenti, riorganizzazioni, tagli e redistribuzione di competenze. Al collega Maurizio Sacconi, che ha promesso un’accelerazione sulla deregulation in materia di contratti per creare maggiore flessibilità e possibilmente un welfare state più efficiente. Finalmente. In barba all’ideologia dell’egualitarismo e delle pari opportunità, che fino ad oggi si è tradotta esclusivamente in un appiattimento al ribasso dei pochi talenti nazionali.

Perché le pari opportunità, così come la responsabilizzazione degli individui, saranno anche valori fondanti e fondamentali della vera meritocrazia, ma – come ricorda l’ex McKinsey Roger Abravanel nel suo ultimo saggio “Meritocrazia” – a patto che vengano orientati alla mobilità sociale e all’emersione del sommerso. Non nel senso di lavoro nero, ma di chi non riesce a emergere, soffocato dalla mediocrità di sistema e stordito dai miasmi di chi starnazza e discetta di giustizia e uguaglianza, ma negli anni si è per lo più fatto complice della creazione dell’esatto opposto. Un modello familistico e classista, una marea di negletti e indolenti. A ulteriore conferma che di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. Perché meritocrazia, quindi, non significa solamente far piazza pulita dei nullafacenti che ammorbano la macchina statale inceppandone i meccanismi, o combattere l’epidemia di raccomandazioni che ingolfano i processi di selezione (quelle esistono ovunque, anche negli Stati Uniti, e nel caso dei “network sociali o professionali” possono essere addirittura positive). Vuol dire soprattutto formare eccellenze e generare leadership, a livello pubblico e privato.

Ecco che allora possono essere utili le iniziative proposte, e raccolte dallo stesso Abravanel. Dalla creazione di una delivery unit sul modello blairiano, che fornisca dati e risultati per migliorare la qualità del settore pubblico; ai programmi di valutazione di studenti e professori; all’istituzione di una Authority del merito per la deregolamentazione dei processi economici. Purché però – come traspare invece dalle analisi di molti studiosi che hanno abbandonato le ideologie passate per quelle postmoderne dell’iperconsumismo a-valoriale e del “tutto lecito ciò che possibile” – il nobile principio della meritocrazia non venga usato come esclusivo paravento dietro il quale accelerare processi di rivoluzione low cost e di svendita del patrimonio nazionale, tanto nel campo dei servizi che della produzione industriale e culturale. L’Italia non ha bisogno di specchiarsi in iperuranici modelli Ikea che non le appartengono. L’Italia ha bisogno di conservare tipicità, valori e tradizioni, e di integrarle ove possibile con le virtù del mercato. Per contemperare, insomma, libertà e bellezza. Questa è la sfida del futuro per governo, sindacati, imprese.  

Altrimenti sarà solo un’altra, l’ennesima, passerella. Come per le mode, che vengono e vanno.