Stranamente, ha avuto poca eco sulla nostra stampa il dissidio di fine anno tra il premier di Israele Benjamin Netanyahu ed il suo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. La questione non era assolutamente di poco conto. In breve: alla conferenza annuale con gli ambasciatori, Lieberman pronuncia ufficialmente alcuni pesantissimi giudizi sulla illegittimità dell’Autorità Palestinese (nessun negoziato con Mahmud Abbas che guida un governo che non indice elezioni) e sulle menzogne del governo della Turchia (Israele non dovrebbe porgere alcuna scusa per i nove attivisti turchi uccisi a maggio scorso). Immediatamente dopo, Netanyahu lo sconfessa pubblicamente con un secco comunicato, ribadendo che simili posizioni non rappresentano Israele e che Lieberman esprime posizioni politicamente personali. Il che è plausibile in democrazia, ma fino a un certo punto.
Si tratta — com’è evidente — di questioni non solo interne allo Stato d’Israele, ma che vanno a toccare punti nevralgici per l’intera comunità internazionale ed in particolare per l’andamento del difficile negoziato israelo-palestinese, in un area critica per l’intero scacchiere mediorientale. A fronte delle critiche di scarso realismo politico mossegli dal suo ministro degli esteri, il premier israeliano non ha infatti mostrato la benché minima intenzione di deflettere dalla sua strategia condensata nella formula Due Stati per due Popoli. Nondimeno, la questione resta grave e pone inquietanti interrogativi per tutti, dal momento che tocca direttamente sia la compattezza dell’attuale sistema di alleanze NATO (di cui la Turchia è membro), che la già non facile coesione dell’asse israelo-statunitense sulle questioni mediorientali (prima fra tutte la posizione da assumere verso le reiterate minacce dell’Iran a Tel Aviv).
Intanto, la pietra gettata nello stagno ha sollevato le sue onde. Il 30 dicembre, sul quotidiano Haaretz, lo specialista di questioni internazionali Ari Shavit ha tirato addirittura in ballo Putin ed il Cremlino, definendo Lieberman allineato alle posizioni critiche dei russi verso gli USA e dunque poco leale agli interessi di pace del suo Paese. Tutto questo proprio mentre da Teheran arrivano segnali che indurrebbero a maggiore prudenza e coesione internazionale, sia per gli effetti negativi per il regime totalitario di Ahmadinejad prodotti delle sanzioni recentemente passate dale Nazioni Unite (e vigorosamente sostenute anche dall’Italia), che per altri elementi di crisi interna riscontrabili proprio sul versante della compattezza non più unanime del sostegno fideistico-religioso di molti leaders islamici verso gli Ayatollah antisemiti oggi al potere.
Un esempio tra tutti è quello offerto dal puntuale monitoraggio della BBC al recente viaggio della Guida Suprema iraniana Ali Kahmanei nella città simbolo di Qom (la prima visita ufficiale dal 1995), a circa un centinaio di chilometri a sud di Teheran. E’ qui che alcune di guide spirituali di notevole spessore tra cui gli Ayatollah Yusuf Saanei e Nasser Makarem Shirazi, già politicamente critiche all’indomani delle contestate elezioni del 2009, hanno apertamente criticato l’operato del Presidente Ahmadinejad accusato di mentire sulla reale situazione economica del Paese. Sempre secondo la BBC, non tutti i teologi piu’ prestigiosi erano presenti al discorso di Kahmanei tenuto sulla piazza centrale di Qom, ampia ben 17.000 metri quadrati e quindi capace di veder radunate fino ad 85.000 persone. Ma l’attesa folla oceanica, almeno dalle foto circolanti, almeno in quella occasione non pare si sia vista. Laddove per il crescent movimento di opposizione dell’Onda Verde all’attuale regime, le parole usate sono state quelle di microbi sociali e politici, verso i quali l’attuale governo avrebbe sviluppato sicuri anticorpi.
Per poco o molto che tutto ciò possa significare, una cosa è certa: mentre in Israele il rispetto delle regole del dibattito democratico impongono duri prezzi da pagare, a Teheran le vie dell’assolutismo teocratico conoscono scorciatoie propagandistiche certo piu’ facili da perseguire nell’immediato, ma che alla lunga non potranno che rivelare la loro intrinseca fragilità.