Ogni tempo ha il suo Faust

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Ogni tempo ha il suo Faust

13 Aprile 2008

Ogni
tempo ha il proprio Faust (e il proprio Mefistofele): è così da duecento anni,
da quella Pasqua del 1808, quando Johann Wolfgang Goethe, quasi sessantenne,
pubblicò la prima parte della sua tragedia. Il testo del grande tedesco è
diventato un “classico” proprio per la novità che riesce a suscitare in ogni
tempo, e tra i lettori più diversi. Il Faust goethiano è forza che vuole il
bene, eppure compie sempre il male. Tragedia che sempre si rinnova, come si potrebbe
lasciarla alle flaccide considerazioni dei cultori d’anticaglie, peggio ancora,
al noioso blaterare dei germanisti…

Opera scritta in un tedesco meridionale dal
forte sapore luterano, così realistico e colloquiale, il “Faust” di Goethe ha
sollecitato fior di interpreti (musicali, letterari, teatrali, cinematografici,
politici perfino), tentati dalla scommessa tra Dio e il diavolo sulla carne e
sull’anima dell’uomo Faust condannato ad “errare” finché “cerca” (“dal cielo
pretende le stelle più belle e dalla terra i piaceri supremi) e libero di
patteggiare con Mefistofele, la forza che ”vuole sempre il male”. Odio e amore,
in Nietzsche, che pur dichiarando la propria ostilità all’opera (Mefistofele e
Faust, così ne “La gaia scienza”, “sono due pregiudizi morali contro il valore
della conoscenza”) non poteva nascondere la propria ammirazione per Goethe,
“l’ultimo tedesco” cui si sentiva di dover prestare attenzione. L’Übermensch progettato dal filosofo
contrastava con quello goethiano, paurosamente indecisa immagine di Dio e
derisore dello Spirito della Terra. Estranei a Nietzsche erano i tormenti di
coscienza di Faust davanti a Gretchen così come la crisi della conoscenza quale
sintomo della modernità.

Dell’Adolf Hitler lettore del “Faust” va detto, e non
solo per curiosità. “Non amo per nulla Goethe”, era giusto il 1933, “ma sono
propenso a perdonargli molto per quell’unica frase: ‘All’inizio era l’azione.’”
Nulla di nuovo, in realtà. Una lettura, quella esaltatrice del “titanismo”, già
azzardata da Oswald Spengler, nel 1918. Con Hitler sarà nuovo solo il tema del “Führer faustiano”.

Erano troppi
i motivi per odiare Goethe: lo spinozismo aristocratico, l’esaltazione
umanitaria, il tecnicismo contrario allo spirito. Da qui gli infiniti litigi
tra i germanisti nazisti e infine la preferenza riservata all’altro classico,
Friedrich Schiller. Ancora un salto temporale e insieme fisico, oltre il Muro e
oltre la catastrofe bellica. A Berlino la “cortina di ferro” aveva preso la
consistenza del cemento armato da appena tre anni quando Walther Ulbricht, il
capo di governo della DDR, suggeriva: “Se voi volete sapere come bisogna andare
avanti leggetevi il Faust di Goethe e
Il Manifesto Comunista di Marx”.
Nulla accadeva in maniera così consequenziale come nella cultura politica della
giovane DDR: non necessariamente si doveva aderire alla figura tragica di
Faust, bastava negarla. Secondo l’interpretazione dell’antitragico Ulbricht,
con l’avvallo di alcuni germanisti a suo servizio, la passeggiata di Pasqua (nella
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