La libertà è in pericolo: in Europa avanza la sharia
28 Giugno 2008
di Bruce Bawer
Bloccati da paura e multiculturalismo troppi occidentali osservano passivamente l’avanzare della sharia.
L’Islam divide il mondo in due parti. La parte governata dalla sharia, o legge islamica, è chiamata Dar al-Islam o Casa della Sottomissione. Tutto il resto è Dar al-Harb o casa della Guerra, così chiamata perché ci vuole la guerra – guerra santa, jihad – per portare quest’ultima alla casa dell’Islam. Nel corso dei secoli la jihad ha assunto forme diverse. Due secoli fa, per esempio, a causa dei pirati musulmani provenienti dal Nord Africa che ne depredavano le navi e rendevano schiavi i loro equipaggi, gli Stati Uniti combatterono le Barbary Wars del 1801-05 e del
Ciò che non è stato sufficientemente riconosciuto, tuttavia, è che la fatwa del 1989 scagliata dall’Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, autore dei Versetti Satanici, ha introdotto un nuovo modello di jihad. Invece di prendere d’assalto navi o edifici occidentali, Khomeini prese di mira una libertà fondamentale dell’Occidente: la libertà di parola. In anni recenti altri islamisti si sono uniti alla crociata cercando di minare alla base le libertà fondamentali delle società occidentali per estendere in tal modo la sharia al loro interno.
I jihadisti culturali hanno potuto godere sinora di un inquietante successo. Due fatti in particolare, l’assassinio ad Amsterdam nel 2004 di Theo Van Gogh per punire il suo film sull’oppressione islamica contro le donne, e l’ondata globale di proteste, assassinii e vandalismi seguita alla pubblicazione nel 2005, da parte di un giornale danese, di alcune vignette satiriche su Maometto, hanno avuto massicce ricadute su tutto l’Occidente. Sotto l’influsso di spinte diverse, ma senza dubbio simultanee, quali la paura, un malinteso senso di solidarietà e un’ ideologia multiculturalista che ci insegna a sminuire le nostre libertà e ad inginocchiarci davanti a culture non occidentali, per quanto repressive, persone di ogni livello all’interno delle società occidentali, ma soprattutto i loro gruppi dirigenti, hanno permesso che le preoccupazioni su ciò che i musulmani fondamentalisti potessero ritenere, pensare o fare influenzassero le loro azioni ed espressioni. Questi occidentali hanno cominciato, in altre parole, a fare proprie le osservanze della sharia e perciò ad accettare la condizione deferente di dhimmis, ossia di quegli infedeli che vivono all’interno delle società musulmane.
La si chiami pure resa culturale.
I media occidentali sembrano seduti sul sedile del conducente in questa corsa alla sharia. Spesso il loro approccio è quello di argomentare che saremmo noi occidentali i bambini cattivi. Quando Pym Fortuyn, il sociologo olandese ormai scomparso, divenne un politico e suonò la sveglia sul pericolo che l’islamizzazione d’Europa poneva alla democrazia occidentale, influenti giornalisti l’hanno etichettato come una minaccia. Un titolo del New York Times lo descrisse alla testa di un’Olanda in marcia verso destra. I giornali olandesi Het Parool e De Volkstrant lo paragonarono a Mussolini; il Trouw ad Hitler. L’uomo che lo uccise nel maggio del 2002 (un multiculturalista, non un musulmano) sembrò evocare questi giudizi quando spiegò il suo movente: le opinioni di Fortuyn sull’Islam, insistette l’assassino, erano “pericolose”.
Forse nessun mezzo di comunicazione occidentale ha manifestato questa abitudine al ribaltamento morale più regolarmente della BBC. Nel 2006, per fare un esempio significativo, l’imam capo di Manchester disse allo psicoterapista John Casson di essere favorevole alla pena di morte per gli omosessuali. Casson rimase sgomento – e
Nel giugno 2005
L’acquiescenza della stampa alle richieste e alle minacce musulmane è endemica. Quando le vignette su Maometto, pubblicate nel settembre 2005 dal giornale danese Jyllands-Posten in sfida all’autocensura giornalistica dopo l’omicidio Van Gogh, trovarono risposta nelle note manifestazioni di violenza un po’ ovunque nel mondo, solo un giornale americano di rilievo, il Philadelphia Inquirer, si unì ai quotidiani Europei Die Welt e El Pais nel ristamparle in segno di solidarietà al diritto di libera espressione. Gli editori che rifiutarono di pubblicare le immagini dichiararono come la loro motivazione fosse il rispetto multiculturale verso l’Islam. Il critico Christopher Hitchens fu di diverso avviso quando scrisse di “conoscere un buon numero di quei preoccupati editori e di poter dire con certezza che il motivo principale per la non pubblicazione delle vignette fosse semplicemente la paura. Un ulteriore esempio di questa nuova condizione di “dhimmità”, quale che sia la motivazione, è il principale fumettista norvegese, Finn Graff, che ha spesso raffigurato gli israeliani come nazisti ma che ha recentemente giurato di non voler mai più disegnare nulla che possa provocare l’ira musulmana. (Solo una nota positiva, questo febbraio, oltre una dozzina di giornali danesi a cui si sono aggiunti alcuni altri giornali nel mondo, hanno ristampato una delle vignette satiriche originali come gesto a favore della libertà di espressione dopo l’arresto di tre persone accusate di aver organizzato l’assassinio dell’artista).
L’anno scorso si è verificata un’altra crisi (a seguito della pubblicazione di vignette satiriche), questa volta contro la rappresentazione di Maometto, da parte dell’artista svedese Lars Vilks, disegnato come un cane e che alcuni ambasciatori di paesi musulmani hanno usato come pretesto per chiedere limitazioni alla libertà di parola in Svezia. La giornalista della CNN Paula Newton suggerì che forse “Vilks avrebbe dovuto sapere” dato il precedente del Jyllands-Posten, come se qualunque artista dovesse stare agli ordini di chiunque lanci minacce di morte. Nel frattempo The Economist dipinse Vilks come un personaggio eccentrico che non meritava di essere preso “troppo sul serio” e commentò favorevolmente che il Primo Ministro svedese, a differenza di quello danese, invitò gli ambasciatori musulmani “per una chiacchierata”.
I media più influenti minimizzano regolarmente i resoconti circa le malefatte di fondamentalisti musulmani o ne oscurano la vera natura. Dopo che la nomina a Cavaliere nel 2007 di Salman Rushdie scatenò un’ulteriore ondata internazionale di tumulti islamisti, Tim Rutten scrisse sul Los Angeles Times: “Se vi state chiedendo perché non siete stati in grado di seguire, sulla stampa americana, rubriche ed editoriali a denuncia di tale nonsenso omicida è solo perché non ce ne sono stati affatto”. Si considerino pure le rivolte che strinsero d’assedio le periferie francesi nell’autunno del 2005. Tali sommosse furono per lo più l’affermazione dell’autorità musulmana su periferie musulmane e perciò chiaramente jihadiste nella loro natura. Tuttavia passarono settimane prima che molti organi d’informazione americani ne parlassero e, quando lo fecero, minimizzarono l’identità musulmana dei rivoltosi (pochi, per esempio, citarono le grida “Allahu akbar”). Invece, descrissero la violenza come uno scoppio di frustrazione contro una generica ingiustizia economica.
Quando sondaggi o studi su musulmani vengono pubblicati, i media spesso ne stravolgono assurdamente i risultati o li lasciano cadere nel dimenticatoio dopo la prima pubblicazione. Alcuni giornalisti accolsero favorevolmente i risultati di un sondaggio del 2007 condotto dal centro ricerche PEW che mostrava come l’80 per cento dei musulmani americani tra i 18 e i 29 anni d’età fossero contrari agli attacchi suicidi, anche se l’altra faccia della medaglia, e il vero punto della faccenda, era che una percentuale a doppia cifra di giovani musulmani americani li sostenevano. Il Washington Post si rallegrò per come i musulmani americani integrati si opponessero all’estremismo facendo eco a USA Today secondo cui i musulmani americani rifiuterebbero ogni estremismo. Un sondaggio del 2006 del Daily Telegraph mostrò come il 40 per cento dei musulmani britannici volessero la sharia in Gran Bretagna e tuttavia i giornalisti britannici spesso scrivono come se solo una sparuta minoranza di loro abbracciasse tali opinioni.
Dopo ogni rilevante attacco terroristico dall’11 Settembre in poi, la stampa ha supinamente pubblicato storie su quanto i musulmani occidentali temano “violente reazioni anti musulmane” spostando, così, nettamente, l’attenzione dai reali attentati degli islamisti a quelli immaginari dei non musulmani. (Tali violente reazioni, naturalmente, non si verificano mai). Mentre libri di esperti di Islam come Bat Ye’r e Robert Spencer che raccontano verità scomode su jihad e sharia spesso non vengono nemmeno recensiti da giornali del calibro del New York Times, la stampa dominante legittima pensatori come Karen Armstrong e John Esposito le cui caramellose rappresentazioni dell’Islam avrebbero dovuto essere discreditate una volta per tutte dopo l’11 Settembre. Il Times descrisse l’agiografia di Armstrong su Maometto come “un buon punto di partenza” per la comprensione dell’Islam; nel luglio del 2007 il Washington Post titolò un articolo di Esposito: “Vuoi capire l’Islam? Comincia da qui”.
I principali mezzi d’informazione hanno spesso confezionato sbiaditi ritratti della vita dei fondamentalisti musulmani. Ne è una prova l’appassionato profilo in tre parti che Andrea Elliott fece dell’imam di Brooklyn e apparso sul New York Times nel marzo del 2006. Elliott e il Times cercarono di rappresentare Reda Shata come un eroico costruttore di ponti fra due culture, lasciando i lettori con la confortante convinzione che la crescita dell’Islam in America fosse non soltanto innocua ma positiva, addirittura auspicabile. Benché emergesse continuando a leggere che Shata non parlava inglese, rifiutava di stringere la mano alle donne, voleva proibire la musica e sosteneva Hamas e gli attentati suicidi,
Questo è ciò che accade in questo nuovo mondo dei media pavido e sottosopra: quelli che se avessero il potere soggiogherebbero gli infedeli, opprimerebbero le donne e giustizierebbero apostati e omosessuali sono “moderati” (moderati essendo, apparentemente, di questi tempi, tutti coloro che non hanno esplosivi intorno alla vita), mentre coloro che osano dire pane al pane sono “islamofobi”.
Lo show business è stato almeno altrettanto scandaloso. Durante
Gruppi di pressione musulmani hanno attivamente cercato di far sì che film e show televisivi rappresentassero l’Islam come nient’altro che una religione di pace. Per esempio, il Consiglio per le Relazioni Islamico-Americane ha influenzato con successo
Nell’aprile del 2006 un episodio della serie di cartoni animati South Park ammirevolmente prese in giro l’ondata di autocensura che seguì alla crisi del Jylland-Posten, ma Comedy Central lo censurò sostituendo un’immagine di Maometto con una schermata nera e didascalie esplicative. Secondo il produttore della serie Anne Garefino, i dirigenti del network ammisero onestamente di avere agito in tal modo per paura. “Fummo felici del fatto” disse ad un intervistatore “che non provarono a sostenere che fosse per tolleranza religiosa”.
E poi c’è il mondo dell’arte. Gli artisti postmoderni che hanno sempre cercato di turbare e scuotere le coscienze adesso sostengono piamente che l’Islam merita “rispetto”. Musei e gallerie hanno silenziosamente tirato giù quadri che potessero turbare i musulmani e hanno messo da parte manoscritti che mostrassero immagini di Maometto.
Intellettuali e accademici liberal di primo piano hanno dimostrato una impressionante disponibilità a tradire i propri ideali quando si tratta di essere concilianti con i musulmani. Già nel 2001, Unni Wikan, esimio antropologo culturale norvegese ed esperto di Islam reagì all’elevata percentuale di stupri musulmani su infedeli ad Oslo esortando le donne a “rendersi conto che viviamo in una società multiculturale e ad adattarvisi”. Più recentemente, esperti europei di elevato profilo quali Ian Buruma del Bard College e Timothy Garton Ash di Oxford, pur negando strenuamente di difendere una resa culturale, hanno comunque abbracciato l’idea del “compromesso” che suona molto come un distinguo senza alcuna sostanziale differenza. Nel suo libro “Omicidio ad Amsterdam”, Buruma cita favorevolmente il richiamo del sindaco di Amsterdam Job Cohen al “compromesso con i musulmani”, inclusi quelli che “consapevolmente discriminano le loro donne”. La sharia contempla il diritto per un uomo musulmano di picchiare e violentare sua moglie, di costringere al matrimonio le sue figlie e di ucciderle se si oppongono. Verrebbe da chiedersi che cosa le donne musulmane immigrate in Europa per scappare a tale barbarie pensino di appelli simili.
Rowan Williams l’arcivescovo di Canterbury e uno dei più noti intellettuali britannici, suggerì in febbraio l’istituzione di un sistema parallelo di sharia in Gran Bretagna. Dal momento che il Consiglio Islamico per
Un altro importante sostenitore del compromesso culturale è il professore di Storia e Letteratura Mark Lilla della Columbia University, autore di un saggio, apparso sul New York Time Magazine nell’agosto del 2007, così lungo e sdolcinato e scritto con tale perfetto accademico distacco che molti lettori a fatica si sarebbero resi conto che tracciava un percorso dritto verso la sharia. “La piena riconciliazione dei musulmani con la democrazia liberale non può essere auspicata”, scrisse Lilla. Per l’Occidente “l’ordine del giorno è fare i conti con essa, non difendere elevati principi”.
Rivelativo, sotto questo aspetto, è il trattamento riservato da parte di Buruma e Gartom Ash alla scrittrice Ayaan Hirsi Ali, forse la più coraggiosa campionessa vivente delle libertà occidentali di fronte all’incalzante jihad, e all’intellettuale europeo musulmano Tariq Ramadan. Siccome Hirsi Ali si rifiuta di scendere a compromessi sulla libertà, Garton Ash l’ha definita una “semplificatrice…..fondamentalista illuminista”, così implicitamente paragonandola ai fondamentalisti musulmani che hanno minacciato di ucciderla, mentre Buruma, in diversi articoli del New York Times l’ha dipinta come un’ingenua petulante. (Entrambi hanno recentemente ritrattato in qualche modo). D’altra parte, i professori Buruma e Ash hanno decantato la supposta specchiatezza di Ramadan. Non sono i soli: benché egli non sia l’occidentalizzato intellettuale urbano che sembra – egli rifiuta, infatti, di condannare la lapidazione delle donne adultere e chiaramente confida in un Europa sotto la sharia – questo nipote di Hassan al-Banna, fondatore della Fratellanza Musulmana e protetto del filosofo islamista Yusuf al-Qaradawi, viene regolarmente elogiato nei circoli benpensanti quale rappresentante delle migliori speranze per una concordia di lungo termine tra musulmani occidentali e non musulmani.
Questa primavera il professore di legge ad Harvard, Noah Feldman, scrivendo sul New York Times magazine brindò per ben due volte alla sharia confrontandola positivamente con la common law inglese e descrivendo l’aspirazione degli islamisti a rinnovare le vecchie leggi come “audacie e nobile”.
Accanto alla stampa, all’industria dell’intrattenimento e ad importanti pensatori liberal che rifiutano di difendere le fondamentali libertà dell’Occidente non sorprende affatto che i nostri leader politici siano stati altrettanto pusillanimi. Dopo che un piccolo giornale di Oslo, il Magazinet, ristampò le vignette danesi all’inizio del 2006 i jihadisti bruciarono le bandiere norvegesi e dettero fuoco all’ambasciata norvegese in Siria. Invece di affrontare i vandali, i leader norvegesi se la presero con l’editore del Magazinet, Vebiarn Selbekk, incolpandolo, seppur parzialmente, per il rogo all’ambasciata e facendo pressioni perché chiedesse scusa. Alla fine egli fu costretto a cedere ad una conferenza stampa sponsorizzata dal governo e a strisciare davanti ad un’assemblea di imam il cui leader lo perdonò pubblicamente e lo mise sotto la sua protezione. In quel terribile giorno Selbekk più tardi ammise “
La posizione delle Nazioni Unite sulla questione della libertà di parola nei confronti del “rispetto” per l’Islam fu subito chiara – e interamente in disaccordo con i suoi valori fondativi di promozione dei diritti umani. “Non si scherza sulla religione degli altri” protestò Kofi Annan subito dopo l’incidente del Magazinet, facendo eco ai sermoni di innumerevoli imam, “e bisogna rispettare ciò che è sacro per gli altri”. Nell’ottobre del 2006, un comitato di discussione delle Nazioni Unite chiamato “Fumetti per la pace”, sotto la presidenza del Segretario Generale Shashi Tharoor propose di disegnare “una sottile linea blu delle Nazioni Unite….tra libertà e responsabilità”. (Gli americani saranno perdonati per aver pensato che quella linea si scontra frontalmente con il Primo Emendamento.) Nel 2007, per di più, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani fece passare una mozione pakistana che proibiva la diffamazione delle religione.
Altri leader occidentali hanno promosso l’espansione della Casa della Sottomissione, Dar al-Islam. Nel settembre 2006, quando l’insegnante di filosofia Robert Redecker fu costretto a darsi alla macchia dopo aver ricevuto numerose minacce di morte a seguito della pubblicazione di un’editoriale di opinione pubblicato su Le Figaro, il Primo Ministro francese del tempo, Dominique de Villepin, commentò che “ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni – sempreché rispettino gli altri, naturalmente”. La lezione da trarre dalla vicenda Redecker, egli aggiunse, era “quanto vigili dobbiamo essere per assicurarci che la gente si rispetti vicendevolmente nella nostra società”. Villepin fu superato lo scorso anno dalla sua controparte svedese, Fredrik Reinfeldt, che dopo essersi incontrato con alcuni ambasciatori musulmani per discutere delle vignette di Vilk, fu elogiato da uno di loro, l’algerino Merzak. Bejaoui, per il suo “spirito di pacificazione”.
Quando anni dopo l’11 settembre il presidente George W. Bush finalmente riconobbe pubblicamente che l’Occidente era in guerra con il fascismo islamico, la furiosa reazione di musulmani e multiculturalisti lo fecero ripiegare sulla neutra espressione di “guerra al terrore”. Il Ministero degli Esteri britannico ha da allora ritenuto tale espressione offensiva e ne ha bandito l’uso ai suoi membri di gabinetto (insieme a “estremismo islamico”). In gennaio il Ministero degli Interni decise che avrebbe descritto il terrorismo islamico, da allora in avanti, come “attività antislamica”.
Le assemblee legislative e i tribunali occidentali hanno via via accresciuto lo “spirito di pacificazione”. Nel 2005 il Parlamento norvegese, senza alcun dibattito pubblico o copertura mediatica, ha criminalizzato gli insulti religiosi (oltretutto spostando l’onere della prova a carico dell’imputato). L’anno scorso, il più celebrato avvocato di quel Paese, Tor Erling Staff, sostenne che la pena per omicidio d’onore dovrebbe essere inferiore a quella per gli altri tipi di assassinio poiché è arrogante aspettarsi che gli uomini musulmani si conformino alle norme della nostra società. Sempre nel
Coloro che osano sfidare i nuovi dettami occidentali basati sulla sharia e sostengono le loro opinioni in alcuni paesi ora rischiano perfino di venire perseguiti. Nel 2006 la leggendaria scrittrice Oriana Fallaci, malata terminale di cancro, fu processata per aver denigrato l’Islam; tre anni prima dovette difendersi da un’accusa simile in un tribunale francese. (
Anche quando hanno ostacolato i critici dell’Islam, le autorità occidentali hanno, comunque, sempre onorato i sostenitori della jihad. Nel 2005 la regina Elisabetta insignì del titolo di Cavaliere Iqbal Sacranie del Cosiglio Britannico Musulmano, colui che aveva richiesto la condanna a morte per Salman Rushdie. Sempre quell’anno, il sindaco di Londra Ken Livingstone assurdamente elogiò come “progressista” Qaradawi e, in risposta agli attivisti gay che osservarono che Qaradawi aveva difeso la pena di morte per gli omosessuali, pubblicò un lungo dossier che cercava di ripulire la reputazione dello studioso sunnita e di infangare quella degli attivisti. Tra tutti i leader occidentali, tuttavia, pochi furono all’altezza di Piet Hein Donner, che nel
Se non trovate scioccante la sottomissione (“dhimmificazione”) dei politici, considerate almeno il livello a cui le forze dell’ordine hanno ceduto alla pressione islamista. L’anno scorso quando “Moschea Undercover”, un insolitamente franco reportage su Channel 4, mostrò predicatori musulmani “moderati” chiedere di picchiare mogli e figlie e uccidere gay e apostati, la polizia scattò in azione denunciando l’emittente alle autorità della comunicazione, Ofcom, per provocazione all’odio razziale. La reazione della polizia, come James Forsyth notò su Spectator, “rivelò un atteggiamento mentale per cui la denuncia di un problema viene vissuta come un problema maggiore del problema stesso”. Alcuni giorni dopo il programma, in assoluta indifferenza rispetto alla realtà denunciata, il commissario di polizia metropolitana Sir Ian Blair rese noti i piani per condividere l’intelligence antiterrorismo con i leader delle comunità musulmane. Tali piani furono fortunatamente accantonati.
Il riformista musulmano canadese Irshad Manjii notò che nel 2006, quando 17 terroristi furono arrestati a Toronto sul punto di infliggere al Canada “il suo 11 settembre”, “la polizia non fece nemmeno menzione che avessero a che fare con l’Islam o con i musulmani, non una sola parola su questo”. Quando, dopo l’omicidio Van Gogh, un artista di Rotterdam realizzò un murale raffigurante un angelo con le parole non uccidere, la polizia, temendo di far torto ai musulmani, cancellò l’opera (e il video della sua distruzione). Nel luglio 2007 un appello televisivo già programmato dalla polizia britannica per favorire la cattura di uno stupratore musulmano, fu cancellato per evitare “reazioni razziste”. E, in agosto, il Times di Londra riferì che uomini “asiatici” (codice britannico per “musulmani”) nel Regno Unito avevano rapporti sessuali con, probabilmente, “centinaia di ragazzine bianche appena dodicenni” ma che le autorità non sarebbero intervenute per timore di “turbare le relazioni interrazziali”. Tipicamente, né il Times né funzionari governativi riconobbero che il disprezzo degli uomini “asiatici” per le ragazzine “bianche” non era questione di razza ma di fede.
Anche i leader militari non sono immuni a tutto questo. Nel 2005, l’editorialista Dianne West notò che il comandante delle truppe americane in Iraq, Tenente Generale John R. Vines, educava i suoi uomini all’Islam dando loro una lista di letture che “mistificava jihad, dhimmità e leggi della sharia attraverso i lavori di Karen Armstrong e John Esposito”; due anni più tardi, la West sottolineò la scarsa propensione di un consigliere per la contro-insorgenza in Iraq, il Tenente Colonnello David Kilcullen, a nominare la jihad. Nel gennaio 2008, il Pentagono licenziò Stephen Coughlin, il suo esperto interno di sharia e jihad poiché, in base ad alcuni resoconti, il suo riconoscimento che il terrorismo era motivato dalla jihad si era inimicato un influente consigliere musulmano. “Che le analisi di Coughlin potessero anche solo essere considerate “controverse”, scrisse Andrew Bostom, redattore di “The Legacy of Jihad”, “ è indice patologico del marciume intellettuale e morale che affligge i nostri sforzi di combattere il terrorismo globale”. (Forse grazie anche alla pubblica indignazione che ne seguì, i funzionari governativi annunciarono in febbraio che Coughlin non sarebbe stato cacciato dopo tutto, ma piuttosto destinato a una diversa posizione del Dipartimento della Difesa).
Tanto basti. Dobbiamo riconoscere che i jihadisti culturali odiano le nostre libertà perché tali libertà sfidano la sharia che essi sono determinati ad imporci. Finora essi hanno avuto molto meno successo nel conculcare la nostra libertà di parola e altre libertà negli Stati Uniti che in Europa, grazie, in non piccola parte, al Primo Emendamento. Tuttavia l’America si sta dimostrando suscettibile in modo crescente alle loro pressioni.
La questione chiave per gli occidentali è dunque: amiamo le nostre libertà almeno quanto i jihadisti le odiano? Molti uomini liberi, purtroppo, si sono abituati a tal punto alla libertà e alla posizione di comodo di non doverla sostenere, che sono incapaci di difenderla quando viene messa in pericolo o, addirittura, in molti casi, di riconoscere quando essa viene messa in pericolo. Quanto ai musulmani che vivono in Occidente, diversi sondaggi indicano che molti di loro, sebbene non attivamente coinvolti nella jihad, sono disposti a stare a guardare passivamente, alcuni favorevolmente, mentre loro fratelli nella fede trascinano il mondo occidentale entro i confini della Casa della Sottomissione, Dar al-Harb. Non possiamo certo aspettarci che essi prendano posizione a favore della libertà se, noi per primi, non lo facciamo.
© City Journal
Traduzione Alessandro Rossi
Bruce Bawer è autore di “Mentre l’Europa dorme: come l’Islam radicale sta distruggendo l’Occidente dall’interno”. Il suo blog è BruceBawer.com.