Una rivolta dimenticata (soprattutto dalla sinistra italiana)
27 Giugno 2008
di Vito Punzi
La ricorrenza dei cinquant’anni dalla morte di Imre Nagy è stata la giusta, recente occasione per ricordare l’invasione di Budapest da parte dei carri armati sovietici, il 4 novembre 1956. Sebbene abbia anticipato di tre anni i moti ungheresi, decisamente meno nota e meno studiata, non solo in Italia, è la rivolta operaia di Berlino del 16 e 17 giugno 1953, quella che fino al 1989 sarebbe rimasta l’unica insurrezione sul territorio della DDR. Eppure fino al 1990, dunque fino alla riunificazione, la Germania Federale volle fare di quella data una festa nazionale (poi sostituita dal 3 ottobre), proprio a ricordo dell’insurrezione operaia e del tentativo di resistenza alla dittatura comunista.
La manifestazione pubblica iniziò il 16 (lo sciopero era iniziato il giorno precedente) e vide tra i primi protagonisti una sessantina di lavoratori edili. Per tutto il 17 l’insurrezione si estese da Berlino all’intera DDR e coinvolse, secondo varie stime, dalle 400.000 ad oltre un milione di persone. Ci fu l’occupazione di uffici comunali, di distretti di polizia, di sedi della SED, il Partito Comunista tedesco-orientale. Ai vertici della SED la fine sembrò davvero vicina e con la dichiarazione della legge marziale l’Unione Sovietica riassunse il potere della giovane DDR. La soppressione della rivolta, grazie all’intervento dei carri armati e di 20.000 soldati sovietici, fu rapida e provocò almeno 55 morti (c’è chi sostiene siano stati molti di più).
Horst Kreeter, oggi un tranquillo signore di 77 anni, fu uno dei protagonisti della rivolta: “Sono stato quello che ha lanciato il primo sasso contro i carri armati”, ha raccontato recentemente in un intervista rilasciata al settimanale “Junge Freiheit”. L’elettrotecnico viveva in un piccolo paese ed ascoltava costantemente RIAS Radio, l’emittente americana che trasmetteva dal settore occidentale. “Devo andare a Berlino, mi sono detto, dopo che la sera del 16 giugno avevo sentito alla radio che la rivolta di stava diffondendo ovunque”. “C’era molta euforia e avevamo intenzione di porre la questione della guida dello sciopero”, aggiunge Kreeter, “ma alle 11,30 sentimmo i cingolati dei carri armati che si stavano avvicinando. Sul primo T34 era bene in vista il comandante delle truppe d’occupazione sovietiche di Berlino Est in persona.”
Ai fischi dei manifestanti venne risposto col piombo. Marx-Engles-Platz venne “ripulita” rapidamente. Alle 13 la protesta era ancora viva in Alexanderplatz, finché anche lì non arrivarono i carri armati. Alle 18 la rivolta berlinese era già stata sedata. Non così a pochi chilometri di distanza, lì dove Kreeter riuscì a fuggire camminando l’intera notte tra il 17 e il 18 giugno: nelle Kneipe di periferia non si sapeva ancora della sconfitta e si festeggiava ancora la rivolta. L’elettrotecnico riuscì a tornarsene a casa, ma la Stasi non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Ci vollero tre anni, tra controlli e delazioni, finché Kreeter subì l’arresto il 10 gennaio 1956, con l’accusa di aver partecipato ai fatti del 17 giugno e di aver avuto contatti con gli americani: “Per me era chiaro: se c’era qualcuno che poteva aiutarci, in quel momento potevano essere solo gli americani”, questa è ancora oggi la sua riflessione. Dopo quasi nove anni di carcere, nell’agosto del 1964 la Germania Federale “comprò” la liberazione di Horst Kreeter pagando 40.000 marchi.
Sarà perché scoppiata nella fresca ex-capitale del Reich hitleriano, sarà perché, oltre ai sassi lanciati contro i carri armati sovietici, il gesto più eloquente di quella rivolta fu la sostituzione, sulla Porta di Brandenburgo, della bandiera rossa dell’occupante con quella nero-rosso-oro tedesca, sarà perché in gioco non c’erano solo i salari, ma anche la libertà e l’unità nazionale. Di fatto, in Italia, al di là di qualche timida critica alla SED, il regime tedesco-orientale non venne certo messo in discussione, tanto meno a sinistra: fu rapida, già il 19 giugno, l’approvazione senza riserve della repressione da parte de “L’Unità” (ancor oggi i comunisti italiani sopravvissuti non esitano a definire quell’evento “la rivolta fascista di Berlino”). Oltremodo meschino il comportamento del pittore torinese Gabriele Mucchi, fino all’ultimo strenuo difensore della DDR e al tempo della rivolta berlinese protagonista di un tipico procedimento di falsificazione della storia al servizio dell’ideologia: tra le opere che realizzò ispirandosi a quella rivolta ce n’è una nella quale gli operai rivoltosi, anziché calpestare la bandiera rossa, così come accadde per le strade di Berlino, vengono rappresentati come coraggiosi difensori di quella stessa bandiera. Mucchi, che pure è vissuto fino al 2002, non ha mai voluto riconoscere le proprie mistificazioni e tanto meno ammettere la gravità di quei fatti.