Ecco come Di Pietro è riuscito a costruirsi il partitino

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Ecco come Di Pietro è riuscito a costruirsi il partitino

04 Luglio 2008

I recentissimi sviluppi politici e le polemiche degli ultimi giorni possono offrire il destro per una riflessione sulle radici e le prospettive del movimento politico messo su da Antonio Di Pietro.

La sigla prescelta ("Italia dei valori") è alquanto generica, come si addice a un contenitore politico pensato come un piccolo partito personale. Una sigla, insomma, che, come altre che abbiamo conosciuto in questi anni, è nata per operare trasformisticamente. Da un lato si coagula un qualche spicchio di consenso senza andare troppo per il sottile, dall’altro si cerca di massimizzare l’utilizzo di questo capitale di scontento all’interno del sistema politico. Movimenti di questo genere sono, di solito, destinati a non durare per un tempo indefinito, ma a seguire la parabola del proprio fondatore. Servono, in altri termini, come supporto a una carriera personale. Questo, crediamo, sarà anche l’esito ultimo del dipietrismo. Tuttavia, al di là di questo giudizio di ordine generale, occorre valutare attentamente i fattori di lungo periodo che hanno contribuito alla significativa affermazione conosciuta da IDV alle ultime elezioni. Fattori che, anche in futuro, potranno contribuire alle fortune di questa formazione politica.

Schematizzando al massimo, il successo del dipietrismo si può riportare a due elementi. In primo luogo c’è quello che possiamo definire il gioco di sponda con i settori della magistratura ammalati di protagonismo. Il movimento guidato dall’ex Pubblico Ministero tende a porsi come la proiezione politica di quei magistrati che vogliono sottrarsi alla sovranità delle istituzioni rappresentative (parlamento, governo, presidenza della repubblica). Gli obiettivi oscillano tra un programma minimo: esercitare un potere di veto corporativo su qualunque tentativo di riassetto dell’ordine giudiziario; e un programma massimo: tenere sotto ricatto perenne l’intera classe politica imponendo col tempo una dittatura giudiziaria strisciante. Per quanto insidiosa, e tendenzialmente eversiva, questa connessione può essere contrastata da opportune iniziative legislative (auspicabilmente bipartisan), che ridimensionino il ruolo impropriamente politico della magistratura, riportandolo pienamente nell’alveo del dettato costituzionale.

Il secondo fattore ha una valenza soprattutto politico-ideologica. Quella che possiamo chiamare l’onda lunga del qualunquismo di sinistra. Per intenderne le radici occorre fare un passo indietro di alcuni decenni. Dopo il fallimento del compromesso storico, cioè del tentativo di salvare l’identità rivoluzionaria del PCI, il leader del partito, Enrico Berlinguer, non imboccò con decisione la strada della revisione ideologica. Questa scelta avrebbe portato a un riesame critico dell’intera vicenda comunista e, in tempi più o meno lunghi, a un necessario approdo socialdemocratico. Tale percorso fu giudicato troppo oneroso. Si preferì seguire la via del rafforzamento identitario. A partire da quel momento venne sottolineato con maggiore vigore che il partito comunista era un partito diverso dagli altri, portatore di una più alta moralità. Con l’andare del tempo, mentre si scolorivano le ideologie e venivano meno i modelli politici di riferimento (russo, cinese, vietnamita etc.), questo richiamo identitario si è connotato sempre più come un cliché onestista, ancor prima che buonista. Così, il partito che nel dopoguerra fu plasmato da un maestro di realismo politico come Palmiro Togliatti ha generato un crescente moralismo qualunquista.

Dopo tangentopoli questa pulsione si è accentuata. Svanita del tutto l’attesa di una rivoluzione politica, il succedaneo di una palingenesi totale è rimasta affidata al magistrato indomito giustiziere. L’esito finale di questo percorso è un rifiuto della politica. Questa non è più vista come una laica e dura contesa fra eguali; scontro di interessi e di valori che affida il suo responso alle urne, bensì come una sorta di regno del male, dominato da una casta di corrotti manipolatori dell’etere e di affaristi senza scrupoli. Contrastare questo secondo fattore che è all’origine del successo del movimento dipietrista è sicuramente meno facile. Certo, nel medio periodo, si può sperare che la demagogia dell’ex magistrato si riveli controproducente. Tuttavia rimuovere i veleni prodotti dal moralismo tardo comunista non sarà un’operazione semplice. Occorre affidarsi al tempo. Sperare che prima o poi al responso negativo delle urne si risponda non con il moralismo paranoide, ma con la presa d’atto della realtà.