La rivoluzione interiore. La politica e la ricerca del bello

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La rivoluzione interiore. La politica e la ricerca del bello

06 Settembre 2008

 

La globalizzazione è in fondo la traduzione filosofica dell’estensione mondiale dell’economia finanziaria, del dominio della tecnica e dell’influenza universale del diritto.

Ciò pone immediatamente il problema del valore della democrazia, della libertà, della vita e della funzione della politica oggi.

Quale forza può avere la democrazia, quale ruolo può avere la politica nell’era della globalizzazione?

Qual è il valore della vita e della dignità della persona e della sua libertà nell’epoca del potere della tecnica e dell’invasione del diritto non come metodo regolativo ma come assurda enfatizzazione di ogni diritto non fondamentale e soddisfazione di ogni desiderio individuale (“Il traffico dei diritti insaziabili”, si intitola un libro dell’editore Rubbettino che vi invito a leggere).

L’ambito e la forza con cui si pongono questi problemi evidenziano la scomparsa di un orizzonte di speranza (della tensione verso il futuro), e di contro dalla solitudine esistenziale dell’uomo del nostro tempo, orfano delle ideologie e della religione.

La letteratura, il cinema, l’arte in generale riflettono la condizione esistenziale dell’uomo del nostro tempo: le nostre paure, le nostre insicurezze, timori, la ricerca difficile di un senso da dare alla nostra vita.

Quest’estate, ho letto due libri emblematici del nostro tempo: “Patrimonio” di Philip Roth e “Sunset Limited” di McCarty.

La perdita di speranza (che si è rovesciata in “speranza del nulla”), che le ideologie alimentavano, e il venir meno della fede, come corpo di valori e soprattutto come regola autonoma di vita, influiscono sulla democrazia e sulla politica, in quanto mezzi di crescita civile di una nazione.

Da dove si può riprendere il filo di un cambiamento umano della società? Da dove si può ripartire per fondare su basi solide una politica come la più alta espressione della carità?

Le ideologie non ci servono più. Gli ideali sì, però. I valori, sì, ci servono ancora. Sono importanti sia i valori professati dai laici, quando promuovono la dignità e la libertà dell’uomo, sia quelli che nascono da una fede autentica.


Il tempo presente non è un tempo fuggevole, vuoto, transitorio. Lo è se non si coglie la sua profondità, la sua intensità, il suo essere l’occasione per le decisioni, per una scelta, per un atto d’amore.

“L’esperienza è nell’istante – ha scritto Emilia Vergani nel suo diario – ed è ciò che vince il totalitarismo del pensiero e la riduzione dell’affezione ad immaginazione. La lotta contro il pensiero che diventa totalizzante e l’affezione che diventa immaginazione è vinta dall’esperienza di Dio minuto per minuto”.

“E’ la mancanza di attenzione, nella vita l’origine di ogni disgrazia.” (Alessandra Borghese)

“La verità deve fiorire dentro di noi – ha scritto Giovanni Lindo Ferretti ne suo “Reduce” – esigenza del cuore pulsante, respiro che vibra, ascolto”.

Per questo è necessaria una rivoluzione, sì, ma, come scriveva Aldo Moro, di una rivoluzione interiore, di una conversione, di una metanoia.

Per afferrare lo spessore di questo concetto, riprendiamo la genesi storico-culturale della modernità. Cos’è la modernità?

La modernità è, in primo luogo, la patria, l’humus, l’ambiente dell’Io, la sua placenta ideale. Dell’Io come in-dividuo, per seguire la lezione di Nietzsche, dell’unicità che si staglia di fronte all’omologazione sociale, alla realtà naturale ed alle ideologie. Al limite perfino dell’Io malato di Stirner, l’Unico. Lavorando sulle contrapposizioni, si potrebbe ipotizzare questo schema: abbiamo di fronte l’Io e il mondo. Karl Löwith lesse così la fitta trama della modernità, da Cartesio ad Heidegger.

Per cogliere lo spessore di una possibile rivoluzione interiore, occorre, a mio avviso, partire dalla natura dell’Io moderno, del Soggetto.

Soprattutto con Cartesio si impone, nella filosofia moderna, la radice dell’IO, del soggetto individuale, della coscienza: “Cogito ergo sum”. Nel pensiero di Cartesio, tuttavia, l’Io è radicalmente diviso tra una parte corporea (la res extensa) e una parte razionale (la res cogitans).

Questo dualismo, in fondo, che attraversa tutta la cultura, permane ancora oggi: tra l’ambito delle scienze e quello della metafisica, soprattutto tra la dimensione delle passioni e delle emozioni e quella della ragione e della razionalità.

Questo problema è essenziale per definire il problema della democrazia.

Oggi, soprattutto a sinistra, si accusa la società italiana di essere preda di stati d’animo di paura, di insicurezza, che sarebbero alla base di politiche di destra, fondate sul razzismo, l’avversione per gli immigrati o addirittura di spinte reazionarie.

Questo argomento è un argomento propagandistico. Lo dimostra il fatto che viene agitato e brandito solo quando gli avversari sono al potere e sottaciuto quando la sinistra invece è stata al potere.

In realtà, depurato degli aspetti propagandistici, il problema del rapporto fra passioni e ragione è essenziale per avere una democrazia forte e matura, cittadini capaci di tenersi al riparo dalle lusinghe del potere: dalla demagogia al nazionalismo.

La mia opinione è che su questo punto abbia offerto una soluzione, o meglio una pista di lavoro, ancora oggi valida il grande filosofo Benedetto Spinoza.

Nel pensiero di Spinoza, la forza vitale delle passioni, infatti, il conatus dell’io, può essere indirizzata all’ampliamento delle possibilità della vita, e della vita buona, se l’uomo, attraverso la ragione, è capace di conoscerle in maniera adeguata.

Anche il pensiero femminile, da questo punto di vista, è interessante, perché fa intravvedere per la prima volta la possibilità di un rapporto nuovo tra passioni e ragione, anzi fra il corpo e la ragione. Non solo pensiero pensante, ma anche corpo pensante. L’intelligenza del cuore, delle emozioni. Che rappresenta tratto specifico del genio delle donne.

Per tornare alla questione dell’Io, richiamo, in sintesi, Fichte e il Soggetto trascendentale; Smith e l’homo oeconomicus; l’homo faber di cui scrive genialmente un marxista raffinato come Ernst Bloch. Con il Soggetto – che entra prepotentemente nella storia e pretende di rovesciarla da cima a fondo – nasce anche la dialettica, ciò che potremmo definire l’ “inquietudine del negativo.

Nasce l’idea stessa di rivoluzione e di classe rivoluzionaria. Questo è l’altro nodo – dialettico – che ha sprigionato la forza della modernità. Forza dialettica, che Hegel e Marx hanno concepito e, soprattutto quest’ultimo, realizzato come motore della rivoluzione. Tutto questo è il Moderno: una strettoia e, insieme, un ponte, quest’ultimo teso fra l’Io e la dialettica rivoluzionaria e sociale.

La modernità è, per certi versi, un girone infernale e,  per altri, l’occasione per vedere al loro massimo livello di espansione – anche energetica come direbbe un teologo come Mancuso – le riserve di energia e di resistenza dell’anima, della persona.

La modernità è la conquista dell’autonomia e della libertà e nello sesso tempo la vertigine e la fuga dalle responsabilità.

Dobbiamo ripartire dall’io, da noi stessi, dalla nostra umanità, per riprendere il cammino della libertà, della pienezza dell’essere, della democrazia e della giustizia.

Un io liberato dalle ideologie (che portano all’attuale crisi della sinistra oggi in Italia ammalata di ideologia), liberato dalla convinzione di essere padrone di tutto, di essere onnipotente, guarito dalla malattia del nulla, e aiutato a mettersi alla ricerca di un senso.

Come ha detto don Aldo Trento al Meeting di Rimini, responsabile della clinica per malati terminali in Paraguay, “prendere sul serio la propria umanità senza censurarla è la strada necessaria perché riaccada l’incontro con il Cristo”.

Aggiungendo che “l’unica vera e concreta vocazione dell’uomo è la pienezza dell’Io”.

L’io che diventa tu e noi grazie all’incontro con Cristo, che diviene possibile grazie all’incarnazione.

Questo incontro da cui nasce la fede, ci aiuta a superare le nostre angosce, le nostre debolezze, la nostra fragilità umana.

In un tempo in cui la fede è un compito difficile, non scontato. Sergio Quinzio: la speranza nasce quando si raggiunge il punto più lontano della disperazione.

Laici e cattolici (dubbio e certezza?)

La rivoluzione interiore è la sorgente più vitale per costruire una libertà responsabile e una autentica democrazia.

Uomini responsabili, che lavorano su stessi per migliorarsi, per essere migliori, per essere buoni cittadini, che rispettano le regole per dovere e per convinzione, che cercano una elevazione spirituale, rendono possibile la democrazia.

Oggi le società sono ingovernabili perché non sono formate da veri cittadini. Io temo che tutti i problemi della nostra società difficilmente troveranno una soluzione se non attraverso un rinnovamento che nasce non dall’esterno, ma dall’interno di ogni uomo. Qui è avvenuto ed avviene l’incontro più profondo  e più fecondo fra la tradizione del cattolicesimo liberale e del liberalsocialismo. Dato che, come diceva Rosselli, non c’è alcuna parentela tra il comunismo e il socialismo.

Il socialismo delle origini, così come il cattolicesimo, è legato all’idea di una emancipazione che nasce dalla libertà, da una scintilla religiosa, da un afflato spirituale. Sia il cattolicesimo che il socialismo democratico metto al centro la persona, la sua capacità di elevarsi, la sua volontà di migliorare, la sua aspirazione alla giustizia e alla solidarietà.

Dunque, dobbiamo giocare la carta della rivoluzione che parte dall’interno del Sé, direbbero Jung e Hillman. Io la chiamo rivoluzione interiore. Un momento capitiniano e agostiniano insieme.

Stabilita la necessità di realizzare la rivoluzione interiore  -e intendo qui rivoluzione nel significato originario, opposto a quello corrente, dunque non sommovimento, bensì ritorno al centro dell’universo, anche storico – come avanzare su questa strada, dopo che proprio la modernità, come ha magistralmente messo in luce Giovanni Reale, ha rinnegato il Bello, uno dei trascendentali di Tommaso d’Aquino? Perché questo è un dato di fatto e non possiamo rimuoverlo, se vogliamo progredire nella nostra indagine.

Il Moderno ha dissacrato il Bello. In primo luogo, con l’ideologia marxista; in secondo luogo, con il prevalere del concetto dell’utile; infine con i dilaganti nichilismi e  relativismi, declinati in molte forme. Le nostre città sono oggi spesso non-luoghi e, quando sono luoghi, sono luoghi brutti, pensiamo alle periferie. L’esempio di Roma, di Firenze e altri esempi. E’ una politica d sinistra? Pensate se avessimo progettato noi un parcheggio sotto il Pincio!

Direi che anche il movimento architettonico contemporaneo fatica non poco a ritrovare la cifra della bellezza, della forma e del significato, del riequilibrio delle forme del Bello. Pensate alle Chiese. E’ difficile vedere dei nuovi monumenti religiosi che riflettono e ospitano la spiritualità.

Si potrebbe dire che il nichilismo, come l’essere di Aristotele, si dice in molti modi: anche nei modi architettonici più sofisticati ed estranei alle radici della nostra tradizione.

La ricerca della verità e della bellezza, come dramma permanente e intramontabile dell’uomo, è appunto la cifra, oggi ideologicamente rimossa, della modernità.

Non lo si dimentichi mai: il Moderno non è in sè la terra di conquista del nichilismo. Non lo è, per così dire, per “vocazione”. Esso accoglie in sé il dramma del nichilismo, ma appunto come dramma, cioè come tensione tra il vero e il falso, tra il bene e il male. Come azione che libera la verità dell’io. Kierkegaard, sullo sfondo, mantiene salde queste convinzioni, accettando il dramma etico dell’Io, alla ricerca della verità e della fede.

Il mondo senza bellezza non può cercare la verità, depotenzia anche gli argomenti che conducono alla verità.

Il Moderno si suicida se accetta questo deserto, se diventa questa terra desolata, come quella descritta da Eliot.

La politica stessa, deprivata del Bello, si riduce a tecnica della conquista del potere, anzi, peggio, a scontro selvaggio fine a se stesso. Perché anche la politica ha bisogno di princìpi, valori oggettivi e leggi naturali, dunque di verità. Essa deve conoscere la verità sull’uomo e deve applicare alla realtà criteri di giustizia e di buon governo.

E – secondo punto – come possiamo concepire questa possibilità di modernità relazionale comunitaria e relazionale? Qui entra in gioco la politica della bellezza. La fonte è James Hillman, che ha scritto un saggio importante, appunto Politica della bellezza. Userò questo testo come fonte e sfondo, per le conclusioni finali. Il nodo è questo: il bisogno comunitario e relazionale del Moderno può costruire il tessuto solido e duraturo della politica. La bellezza, nel Moderno, non ha avuto vita facile, come dimostrano le nostre periferie. Ma è anche vero che si tratta di capire bene cosa sia “bellezza”. “Bellezza” non è solo contenuto del Bello; non è solo teoria del Bello o metafisica della Bellezza.

Io penso che la bellezza sia una categoria della politica e che questa categoria legittimi la politica nel senso della “vocazione”, nel senso weberiano. Perché bellezza vuol dire percezione della realtà degli uomini e delle donne che vivono associati, nell’agorà e nella pòlis.

La bellezza ha, in sé, una dimensione civica e pubblica, comunitaria.

Allora “politica della bellezza” vuol dire rimettere al centro la percezione della vita comune, associata degli uomini e delle donne, che vivono per migliorare e riformare la società, il mondo che hanno intorno, le periferie, che vogliono belle ed abitabili. Questa è politica come orientamento attivo verso il mondo. L’estetica è, qui, percezione della realtà nel suo complesso, della vita umana e civile.

Ma come può il soggetto moderno, anzi oggi direi post-moderno, così fluido e insieme ricettivo, accogliere questa visione del mondo, questa visione della politica come bellezza, nel senso sopra richiamato?

Per far ciò, è necessario che si realizzi una conversione interiore, la rivoluzione interiore dell’umanesimo civile e politico. La rivoluzione interiore così come la concepiva Olivetti e un certo personalismo cristiano.

Rivoluzione o conversione interiore vuol dire capacità di accogliere la verità dei trascendentali – il bello, il vero e il buono -, in ogni persona, e nella dimensione comune, delle relazioni; e, secondo aspetto, vuol dire uscire dal solipsismo individualistico per recuperare la forza dell’abbraccio solidale ai bisogni dell’altro, sentendosi “ostaggi” dell’altro (Lévinas). E’ un percorso di liberazione individuale che riconduce la politica al luogo dell’umanesimo civile e della libertà solidale, direi, più radicalmente ancora, dell’amicizia come filìa aristotelica.

A questo livello, l’etica, la politica e la cultura civile e umanistica si fondono. La società diventa il luogo dell’amicizia e della bellezza. Appunto: la politica della bellezza.