Sorvegliare e punire, la democrazia secondo Erdogan
12 Ottobre 2016
Alle 9 di sera del 15 luglio scorso, qualcuno bussa alla porta del generale Akar, comandante dell’esercito turco, per dirgli che è iniziato un colpo di stato militare. Il generale tentenna, chiede ai suoi uomini “di che diavolo state parlando?”, e quelli per tutta risposta lo legano, lo incappucciano e trasportano in una località segreta. Nel corso della notte, sembra che il colpo di stato delle forze armate in Turchia sia riuscito. Vengono occupati aeroporti, televisioni, si alzano in volo F16 ribelli che qualche ora dopo bombardano il parlamento. Ma il gruppo di fuoco incaricato di sequestrare il presidente Erdogan fallisce nella sua missione. Il “Sultano” riesce in modo avventuroso a salvarsi e rivolgendosi direttamente alla nazione chiama a raccolta il suo popolo nelle piazze. Quel popolo, perché quel popolo c’è, risponde all’appello.
Scattano le grandi purghe. Saranno gli storici a dirci cosa non ha funzionato nel “coup” di luglio, oppure se, come sostengono alcuni, Erdogan abbia sfruttato l’accaduto per accentrare definitivamente il potere nelle sue mani. Fatto sta che a tre mesi di distanza, ieri il parlamento turco ha prorogato lo stato di emergenza nel Paese per almeno altri 120 giorni. Questo vuol dire, per fare un esempio, che il fermo di polizia può durare fino a un mese senza che gli agenti debbano rendere conto a un avvocato. Le purghe di Erdogan hanno colpito ministeri, università, scuole, magistratura, polizia, esercito, media, persino il mondo dello sport e della cultura. Secondo fonti ufficiali, a fine settembre in Turchia erano state arrestate 32mila persone e almeno altre 70mila risultavano indagate.
Erdogan di recente ha fatto appello contro quella corte tedesca rea di aver assolto il comico Jan Boehmermann, che aveva declamato una “Poesia diffamatoria” contro il presidente turco (Boehmermann in realtà ha scritto la sua satira aggressiva dopo che il governo di Ankara aveva chiamato l’ambasciatore tedesco a rendere conto di un’altra canzone ritenuta oltraggiosa e trasmessa in tv in Germania). In patria, Erdogan continua a mascherare la repressione dicendo che deve difendersi dalle rete complottista messa in piedi dal predicatore islamico Fethullah Gulen, che vive in esilio negli Usa, qualcuno dice protetto dalla Cia (ne ha scritto il New Yorker). Per questo motivo, ancora nelle ultime ore, altri 125 poliziotti sono stati arrestati.
Ma l’annientamento delle libertà in Turchia va ben oltre la “rete gulenista”. Tremila giornalisti hanno perso il lavoro, compreso uno dei finalisti del premio Sakharov. Secondo Repoters senza frontiere al momento la Turchia è “la più grande prigione al mondo per i giornalisti”. 120 colleghi sono stati arrestati, 150 organi di informazione, tv, radio e giornali, chiusi e centinaia di siti internet bloccati dal governo. Le purghe si sono estese alle organizzazioni sindacali, ai partiti filo-curdi, alle minoranze (gli aleviti, dieci milioni di persone), ai gruppi femministi e ambientalisti. Racconta uno degli autori dello scoop sulle armi fornite da Ankara ai miliziani di Isis in Siria: “un giorno sono andato in aeroporto per un viaggio e mi hanno detto non può lasciare il Paese, il suo passaporto è stato ritirato”.
Secondo Human Rights Watch, al momento nel panorama della informazione turca non esistono voci dissenzienti, “il governo non ammette che vengano diffuse notizie al di fuori di quelle trasmesse dalle proprie reti”. Cosa dobbiamo aspettarci in futuro? C’è ben poco da sperare. Quella cosa ridicola che risponde al nome di “comunità internazionale”, per non dire dell’Unione Europea e della Germania che pagano Erdogan per proteggersi dall’immigrazione incontrollata, non hanno mosso un dito.
Neppure la NATO, o Usa, che per ragioni strategiche, anche se ormai si fatica a capire quali, continuano a ritenere la Turchia un partner affidabile, fanno qualcosa. Le cancellerie occidentali continuano a pendere dalle labbra del presidente turco quando dice, come ha fatto al congresso mondiale dell’energia che si è svolto nei giorni scorsi a Istanbul, “Uniamo le nostre forze per la fine della guerra in Siria e Iran, liberando Aleppo e Mosul dal terrorismo e raggiungendo la pace”. Erdogan il pacificatore della Siria, se non fosse che Ankara minaccia già il vicino Iraq.
Si può sperare allora solo in un rigurgito democratico in Turchia. Il fallito colpo di Stato di luglio, infatti, si lascia dietro un Paese instabile. Erdogan ha scatenato la repressione oltre ogni limite immaginabile ma adesso, se la ferma, se abbassa la spada, “rischia di cadere”, dice all’ANSA lo scrittore turco Burhan Sonmez. “In Turchia non esistono più istituzioni che obbediscono allo Stato di diritto, ma solo alla volontà di Erdogan,” spiega Sonmez, “destra o sinistra, islamici o curdi, non conta più niente, siamo tutti vittime dell’oppressione del governo, che utilizza il tentato golpe come scusa per liberarsi della opposizione democratica”.
“Oggi siamo tutti a rischio di arresto, ma non è il momento di scappare. Anzi, rispetto a due mesi fa, subito dopo il golpe, credo che la gente stia riacquistando il coraggio e la voglia di lottare. L’unica cosa certa è che non avremo un futuro stabile. Quando demonizzi metà della società, non puoi prevedere come andrà a finire”.