Ambiente, Kyoto era un’utopia ed è stato giusto non firmare

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Ambiente, Kyoto era un’utopia ed è stato giusto non firmare

01 Ottobre 2008

Fra poco più di 30 giorni gli americani sceglieranno chi tra McCain o Obama li governerà e con quale visione dei problemi. Gli avvenimenti di questo ultimo periodo, tra i danni del tornado IKE e quelli ancora più rilevanti e pervasivi della crisi dei subprime e della finanza senza controlli, determineranno comportamenti elettorali forse diversi da quello che gli analisti si attendevano in condizioni diverse. 

Molte certezze sono saltate, un modello è crollato ed uno nuovo deve essere creato, possibilmente facendo tesoro degli errori del passato. In ogni caso le elezioni del 2008 saranno quelle che i media hanno da tempo definito “energy elections”, le elezioni dell’energia perché questo elemento determinante giocherà nei prossimi anni un ruolo ancor più  importante che nel passato. Quando si discute di problemi ambientali un numero sempre maggiore di americani è meno interessato al problema del riscaldamento globale e sempre più, invece, ai problemi degli approvvigionamenti energetici e del costo dell’energia. 

Ma energia e ambiente sono strettamente legati e non si può discutere della prima senza necessariamente tener conto del secondo; in questo contesto è interessante fare oggi un bilancio delle scelte dell’Amministrazione Bush di questi anni. In primis va riconosciuto l’approccio pragmatico che è stato seguito: piuttosto che vincolarsi a target precisi, spesso irraggiungibili ed irrealistici se non utopici, gli USA hanno privilegiato una politica che fosse efficace in termini ambientali ma economicamente sostenibile. Questa è la stessa linea che sostengono per portare avanti la Bali Roadmap, il cammino da intraprendere per costruire il dopo Kyoto, soprattutto alla luce dei risultati non particolarmente brillanti che il Protocollo ha prodotto sino ad oggi. 

Possiamo dare torto ad una scelta come questa che, sostanzialmente, dice: sono d’accordo nel farmi carico del problema ma questo deve essere affrontato da tutti gli attori, condiviso e, soprattutto, non vedo per quale ragione le mie scelte debbano indebolire la mia struttura industriale depotenziandola e rendendola meno competitiva in un mercato globalizzato?

Precisamente l’approccio appare logico e pienamente giustificato: semmai è da chiedersi perché discorsi simili non li abbiano fatti gli europei. Proviamo, infatti, a chiederci quale sia la logica della scelta, affrettata e mal ponderata, del famoso traguardo 20-20-20 (20% maggiore efficienza energetica, 20% uso di energie rinnovabili, 20% di riduzioni di emissioni) mentre tutti gli altri competitori vanno in direzioni diverse senza porsi limiti effettivi perché consci dei pericoli di simili scelte. Il risultato è che a Bruxelles si litiga regolarmente ad ogni Consiglio dei Ministri perché ogni paese vuole salvaguardare le proprie quote o si è accorto, tardi, che la propria industria è penalizzata da questa scelta. 

Molto più realisticamente, gli USA considerano che il nuovo Protocollo dovrà essere economicamente sostenibile e promuovere, non inibire, la crescita economica di tutti gli attori garantendo sicurezza energetica e condizioni ambientali migliori. Consci che la domanda energetica crescerà entro il 2050 di oltre il 50%, maggiormente sulla spinta dei Paesi in Via di Sviluppo, l’accento è stato posto sullo sviluppo e l’adozione di tecnologie avanzate con un occhio alla limitazione e riduzione dei costi attraverso sforzi che consentano un miglioramento nel modo di “produrre ed usare” l’energia mettendo in piedi incentivi ed investimenti che favoriscano il processo. 

I programmi, sviluppati sia a livello nazionale che internazionale, sono sia di tipo obbligatorio, che stimolati da incentivi o dal mercato, e persino su base volontaria: prevedendo il coinvolgimento sia pubblico che privato. Gli incontri con le 16 Maggiori Economie Mondiali, che rappresentano circa lo 80% dell’economia del pianeta, è stato il primo passo verso la creazione di una nuova fase di accordi per la riduzione dei gas serra come contributo ad un rilancio della Convenzione sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite. 

Fin dal 2001, l’Amministrazione Bush ha impegnato oltre 45 miliardi $ a sostegno della ricerca nel settore del clima cui vanno aggiunti altri 7,4 miliardi per il 2008. Ancora, gli investimenti in ricerche tecnologiche sull’energia sono cresciute da 1,7 miliardi del 2001 a quasi 4 miliardi per anno. Globalmente poi, il bilancio del settore energia ha sostenuto le tecnologie per l’energia “pulita” con circa 38,5 miliardi $ all’anno. Va anche ricordata l’azione congiunta USA-Europa a favore del trasferimento tecnologico di tecnologie “per il clima” nell’ambito del WTO i cui paesi caricano fino al 70% di tasse su vari prodotti ambientali impedendo, di fatto, l’uso di queste tecnologie da parte di nazioni meno fortunate. Come ha mostrato un recente studio della World Bank, la rimozione di questi vincoli incrementerebbe il livello del commercio tra il 7 ed il 14% all’anno. 

Che giudizio dare al complesso di questi sforzi? Non può essere che positivo; quasi di invidia di fronte ad un sano pragmatismo che, pur tenendo d’occhio gli obiettivi ambientali, non trascura gli interessi nazionali e, quindi, quelli dei cittadini; questo con buona pace di quanti si strapperanno i capelli se, forse, i nuovi limiti che saranno stabiliti nel prossimo Protocollo non saranno raggiunti nei tempi previsti.