Spike Lee riscrive la Resistenza, tra Storia e immaginazione

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Spike Lee riscrive la Resistenza, tra Storia e immaginazione

30 Settembre 2008

Miracolo revisionista e politically uncorrect di Spike Lee: nel film sulla strage di San’Anna di Stazzema – avvenuta il 12 agosto del 1944, il regista americano è riuscito a fare incazzare praticamente tutti. I partigiani, la sinistra italiana e tanti storici che neanche per Giampaolo Pansa si erano scomodati in una sola volta. Eppure il film, tratto dall’omonimo romanzo di James McBride, non ha la pretesa di ricostruire la realtà storica dell’eccidio nazista che, ordinato da Walter Reder, fece 560 morti innocenti.

Spike Lee lo dichiara fin dalla prima scena: “l’unica cosa sicura di quella strage è che la compirono i nazisti per terrorizzare la gente e indurla a non collaborare con i partigiani”. Ma non è bastato questo a calmare le acque. E a poco sono serviti i toni decisamente anti-yankee di una storia che racconta la Seconda Guerra mondiale vista dalla parte degli afroamericani. Più precisamente quei “Buffalo Soldiers” – la brigata meccanizzata che combattè le battaglie più cruente della Guerra di Liberazione, immortalati da Bob Marley nell’omonima e indimenticabile canzone reggae.

Niente da fare, i partigiani non hanno voluto sentire ragioni. E se prima della fine delle riprese avevano già chiesto al regista di tagliare almeno tre metri di pellicola, adesso si prevedono barricate e manifestazioni di piazza davanti ai cinema italiani. Spike Lee infatti ha sposato la tesi di McBride che, nel romanzo, racconta di un partigiano traditore (Rodolfo), colpevole di aver provocato la strage di Sant’Anna – una rappresaglia nazista per i massacri commessi dalla banda del capo partigiano “Farfalla”. (Peraltro McBride è convinto che si tratti di un fatto storico.)

Prima che terminasse le riprese, al regista erano giunti appelli accorati e minacciosi per spingerlo a modificare la trama del film. Erano scese in campo quasi tutte le organizzazioni partigiane italiane, a cominciare dall’Anpi, con una netta preponderanza di quelle toscane. Alla prima romana del film, lunedì scorso, abbiamo sentito i commenti acidi dei giornalisti, tipo “ah ma quel Lee è proprio un disinformato, non ha letto la sentenza della Cassazione che dice che non si trattò di una rappresaglia? Ma perché non ha continuato a fare dei film sui ghetti americani?”.

Già. Come mai fino a quando si limitava a mettere in scena l’America del potere nero, e dell’odio contro i bianchi, Spike Lee era un beniamino dei No Global e della sinistra istituzionale, mentre adesso si ritrova di colpo accomunato a Giampaolo Pansa – accusato di revisionismo e, colpa ancora più infamante, di aver voluto lucrare sulla memoria dei partigiani? Eppure il film è bellissimo e commovente. Sicuramente uno dei migliori del regista, che ha dimostrato una rara capacità di fondere la ricostruzione storica sull’Italia recente con le tematiche sull’integrazione dei soldati neri nell’esercito americano dei primi anni Quaranta.

Lee dipinge una Resistenza dove non tutto è bianco o nero: esistono gli eroi ma anche gli infami. Stesso discorso per l’esercito americano, dove gli ufficiali bianchi non sembrano avere i riflessi pronti quando c’è da salvare le terga a una brigata di “coloured”. Per non parlare dei nazisti che, una volta tanto, vengono rappresentati come esseri umani, capaci di provare dei sentimenti, e non solo come delle macchine di morte succubi degli alti comandi. Storie che forse non sono storicamente veritiere ma appaiono perlomeno verosimili. E’ come se, per una volta, la cinepresa avesse girato dalla parte degli uomini e non delle loro ideologie. Ma i custodi dell’ortodossia partigiana (come li chiama Pansa) non potevano tollerare i voli pindarici di Lee, quell’oscillare tra storie di guerra, amore e morte. Dal prossimo 3 ottobre, quando il film uscirà in tutte le sale italiane, le “guardie rosse” del pensiero unico sono pronte a manifestare contro il neo-revisionista Lee.