Bimbo rohingya morto nel fango: foto diventa simbolo genocidio. Ma governo Birmano nega
05 Gennaio 2017
Sta facendo il giro del web la foto di un bimbo di soli 16 mesi, di etnia Rohingya, senza vita. Abbandonato nel fango, a faccia in giù, gambe e braccia nude, il neonato giace nel fango.
Un’immagine che ricorda molto da vicino quella del piccolo Aylan Kurdi, il bambino siriano annegato in mare nel settembre 2015 durante una traversata verso la Grecia, che le onde hanno riportato sulla spiaggia turca da cui era partito. Simile la posizione dei due bambini, stesso senso di abbandono.
Lo scatto potrebbe diventare il simbolo dell’esodo dei rohingya, minoranza musulmana dell’ovest del Myanmar, del quale il bimbo faceva parte. Secondo le Nazioni Unite si tratta di uno dei popoli “più perseguitati del mondo”.
Il piccolo Rohingya, dice la Cnn, si chiamava Mohammed Shohayet ed è annegato insieme a mamma, fratellino di tre anni e zio sotto al fuoco dei militari. La sua famiglia tentava la traversata del fiume Naf, al confine fra la Birmania e il Bangladesh, verso il quale stavano fuggendo.
“Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo”, ha raccontato alla Cnn il giovane padre del bimbo, Zafor Alam. “Nel nostro villaggio – ha detto Alam – gli elicotteri ci hanno sparato contro e poi i soldati birmani ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Abbiano dovuto scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla”.
“Ho camminato per sei giorni – ha spiegato -. Non ho potuto mangiare neanche riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya”.
Poi la traversata sul fiume per cercare aiuto. Alam viene soccorso da un pescatore bengalese, insieme al quale va alla ricerca della sua famiglia. Chiama sul cellulare la moglie e sente il piccolo che chiama il papà. Dice alla moglie di aspettare, ma i militari birmani nel frattempo hanno iniziato a sparare sui fuggitivi. Il pescatore raccoglie più persone possibili. Troppe, e affonda. Alam non sa più nulla della famiglia, fino a quando qualcuno che lui conosce gli dice di aver visto e fotografato suo figlio: morto.
Secondo stime dell’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34.000 Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso quel fiume. Sono circa un milione di musulmani di lingua affine al bengalese, e vivono nello stato birmano occidentale di Rakhine.
In autunno è iniziata un’operazione militare che si configura come vera e propria pulizia etnica, secondo un recente j’accuse dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Una macchia che pesa come un macigno sulla giovanissima democrazia birmana, dove i militari sono sospettati di comandare ancora, anche se dietro le quinte. Una macchia che finisce per ledere anche l’immagine di, Aung San Suu Kyi, che sulla vicenda è rimasta in silenzio.
La commissione d’inchiesta creata dal governo birmano per far luce sulle accuse alla polizia di genocidio e abusi sessuali contro i musulmani di etnia Rohingya ha dichiarato di non “aver trovato finora alcuna prova” di questi crimini. In questi mesi diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato abusi e violenze contro la minoranza musulmana. I risultati finali dell’indagine saranno resi noti a fine gennaio.