La vera storia di Fannie Mae, Freddie Mac e IndyMac Bancorp

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La vera storia di Fannie Mae, Freddie Mac e IndyMac Bancorp

14 Luglio 2008

“Since 1968, Fannie Mae has helped more than 55 million families achieve the American Dream of homeownership”. Questa frase ha accompagnato ogni americano negli ultimi 70 anni. Ma ora sembra che il sogno americano si stia tramutando in un incubo.

Fannie Mae (Federal National Mortgage Association) e Freddie Mac (Federal Home Loan and Mortgage Corporation), le sorelle dei mutui ipotecari americani, hanno perso oltre l’80% della loro capitalizzazione di borsa nel giro di un anno, dallo scoppio della bolla dei subprime. Ma il vero crollo è avvenuto la scorsa settimana in cui Wall Street ha vissuto attimi di panico vero, considerata la crisi di liquidità che ha colpito tutto il mercato dell’erogazione dei mutui negli States. In questo frangente, tuttavia, è necessario provare a spiegare le cause del default bancario più imponente degli ultimi vent’anni. 

I protagonisti principali sono tre: Fannie Mae, Freddie Mac e IndyMac Bancorp. La prima è stata fondata nel 1938 da Franklin D. Roosevelt e solo nel 1968 è stata quotata a Wall Street; Freddie Mac invece è sorta nel 1975 ad opera del Congresso ed assieme alla prima, sono la possibilità più accessibile per chi vuol acquistar un’abitazione con un mutuo; la terza, californiana di Pasadena, era una delle regine dei mutui ad alto rischio (Alt-A), un colosso privato che solo nell’ultimo anno aveva erogato mutui per oltre 70 miliardi di dollari. Fondamentale è riportar le cifre del mercato in questione, 12 trilioni di dollari: questo è quanto vale il settore residenziale ipotecario negli Usa. 

Il meccanismo con cui operano le sorelle FM per rendere convenienti i loro prestiti abitativi è assai semplice: acquistano mutui emessi da banche commerciali (netta è la divisione fra investiment bank e commercial bank negli Usa), creano bond che poi divide in obbligazioni da allocare presso gli investitori. Il vantaggio (e la sicurezza) deriva dal fatto che entrambe sono società paragovernative, quindi potevano operare sui mercati con la sicurezza della tripla A delle agenzie di rating. Le stesse che ad oggi, nonostante un default imbarazzante, hanno ribadito che il rating rimarrà costante. Forse perché sono sicure che il governo degli Usa non permetterà che mutui ipotecari per oltre 5 trilioni di dollari siano lasciati scoperti, perché è questa la cifra che coprono Fannie Mae e Freddie Mac. 

Diversa, ma di poco, la situazione di IndyMac, nona società yankee per l’erogazione di mutui, che operava direttamente come emittente di finanziamenti, prevalentemente verso i clienti che non possiedono i requisiti minimi istituiti dalle agenzie governative, i cosiddetti Alt-A, ovvero quelli a maggior rischio d’insolvenza creditizia. Alla notizia della restrizione del credito a causa delle ratio patrimoniali al di sotto dei limiti di legge, gli investitori hanno cominciato a riversarsi presso gli sportelli della banca, ricordando le scene viste per Northern Rock. In pochissimo tempo, il titolo è arrivato ad essere solo carta straccia, con un valore nominale di 0,7$. Si pensi che in pochi giorni sono stati ritirati dalle casse della banca oltre 1 miliardo e 300 milioni di dollari. Ed ecco che la crisi di liquidità è stata servita su un piatto d’argento, portando verso il fondo l’istituto di credito. Infatti, le autorità federali hanno dichiarato fallita la banca e ne hanno assunto il controllo. 

Ma cosa è successo nel mercato americano dell’immobile, tale da giustificare questi defaults? Si possono principalmente trovare tre problemi ed una variabile positiva. Crisi di liquidità, d’insolvenza ed informativa: le cause degli ultimi crack (ma non solo degli ultimi). Partiamo dall’informazione: negli ultimi mesi, chi tiene d’occhio la situazione americana avrà sicuramente osservato l’andamento del Markit iTraxx Crossover Index, parametrante le società con il maggior rischio di credito. Bene, cioè male, perché i CDS (credit default swap, protezione dal rischio d’insolvenza di un bond od un prestito) su Fannie Mae e Freddie Mac avevano subito un’impennata nei giorni precedenti al crack. Quindi, lapalissiano che sia mancata l’informativa adeguata da parte delle stesse agenzie di mutui. Certo, verrebbe da pensare: ma chi glielo consigliava di aprir bocca e dare le nefaste notizie sul loro stato di bilancio, mettendo in subbuglio il sistema? Infatti, si è stati zitti fino all’ultimo istante possibile.

Ma prima della crisi di informazione, avvenne quella d’insolvenza. A concedere mutui ipotecari a nuclei familiari senza garanzie oggettive, si sapeva fin dall’inizio quali erano le regole del gioco e si è deciso di giocare lo stesso. Ovvio che se poi il sistema delle securities creditizie va in stallo, il castello di carte prodotto dalle mele marce crolla in un amen. Ma per aver la quadratura del cerchio, giunge la crisi di liquidità. Si pensi infatti ad una banca: lavorando in regime di riserva frazionaria, la sua liquidità è molto limitata. Se giungono agli sportelli centinaia, migliaia di risparmiatori che vogliono ritirare tutti i denari presenti sui loro conti correnti perché i media continuano a ripetere che l’istituto di credito sta per fallire, secondo voi la banca riuscirà ad onorare tutte le richieste? No? Anche per questo motivo Northern Rock ed IndyMac Bancorp hanno dovuto cedere il passo al controllo statale. Eppure, c’è anche la nota positiva. Sì, perché le cartolarizzazioni hanno permesso all’economia americana di non implodere in modo devastante, dato che hanno spalmato il rischio sui mercati globali. Se l’obiettivo era quello di trasferire il rischio, diversificarlo, è indubbio che il sistema sia stato a dir poco dignitoso. 

Come per i casi appena citati, di salvataggio di stato si parla anche per le due sorelle FM. Mentre in Italia ed Europa si discute se è lecito o no prestare 300 milioni di euro ad Alitalia, l’amministrazione Bush sta pensando di operare per cifre che contemplano i miliardi di dollari come unità di misura. Tuttavia, ritenere che sarebbe un errore salvarle non è così strano. In primis, per le problematiche legate al debito pubblico: in che modo possono essere sopportati dai contribuenti i defaults? L’ammistrazione Usa che verrà sarà in grado di attuare politiche economiche coadiuvanti la crescita ed il superamento della crisi? In secondo battuta, si creerebbero forti problematiche di ordine psicologico: le società si sentirebbero legittimate a compiere le peggiori operazioni nel prossimo futuro perché tanto coperte dalla lunga mano dello stato. Più ragionevole un atteggiamento maturo, secondo il quale chi ha commesso degli errori, paghi quello che deve, senza sconti. L’indulgenza nei confronti degli interessi particolari dietro a Fannie Mae e Freddie Mac deve essere dimenticata. E a chi afferma che se non si salvassero si metterebbe in ginocchio un’economia, si può domandare come reputa un sistema economico che ha visto svalutazioni per oltre 300 miliardi di dollari in un anno e le curve di crescita appiattirsi sempre più. 

L’incubo dell’incipit è qualcosa di già fra noi, purtroppo. Non è questione di essere pessimisti, bensì realisti. Se torniamo indietro di pochi mesi, possiamo ricordare le parole sfuggite a Ben Bernanke, governatore della Fed: «Ci saranno altri fallimenti di banche». Come Nostradamus, aveva previsto tutto. Ora però, piuttosto che sforbiciar nuovamente i tassi o assumere il controllo delle mele marce (vedi Bear Stearns), ripensi al motto di Fannie Mae e guardi la situazione di oggi.