Chi mette freni alla concorrenza non vuol bene all’Italia
23 Luglio 2022
C’è un vecchio tema di cui nessun parla e che è, sostanzialmente, il motivo per cui “liberalismo” è una parola quasi completamente svuotata di significato a causa dell’usura. L’equivoco è che i liberali siano dalla parte dei ricchi e delle imprese. Niente di più falso e mistificatorio. Sulla carta i liberali sono dalla parte del “fare impresa”, delle capacità individuali e del mercato.
Quisquilie, qualcuno penserà. Com’è possibile non difendere a priori le imprese, se si difende la libera intrapresa? Com’è possibile, quindi, prefigurare percorsi diversi tra gli interessi di chi fa business e le dinamiche del libero mercato? Già nel 2004 se lo chiesero Raghuram Rajani e Luigi Zingales, due importanti economisti, nel libro “Salvare il capitalismo dai capitalisti”.
Libero mercato e concorrenza vs corporazioni
Sono quattro i pilastri su cui si basa la loro teoria. Innanzitutto, la proprietà privata dev’essere diffusa e non concentrata nelle mani di pochi. Inoltre, serve una rete di protezione per gli ultimi e una limitazione dello spazio di manovra politica mantenendo aperti i confini. Infine, un elemento fondamentale: i cittadini devono essere sempre più consapevoli dei benefici del libero mercato e degli svantaggi delle policies anticoncorrenziali.
Quest’ultimo punto è clamorosamente attuale. Il governo Draghi è caduto anche per le accuse di Draghi al centrodestra di governo, esclusa Italia al Centro, di essersi schierati contro i dl concorrenza, che aveva come obiettivo smantellare i privilegi di tante piccole e odiose caste. Anche perché il problema dei settori privi di concorrenza e delle aziende salvate o sussidiate dalle Stato è sostanzialmente uno: pochissimi traggono un beneficio laddove la quasi totalità dei cittadini sborsa soldi propri.
Un nuovo modo di vedere l’impresa
Non dobbiamo mai dimenticare che non esiste il denaro pubblico, ma solo il denaro dei contribuenti. E allora basterebbe questo punto di vista per giustificare la fine dei privilegi di pochi per migliorare la vita di molti. La zombienomics in Italia è andata tanto di moda, ma è una cosa bipartisan. Nel libro di Zingales e Rajan è chiaro: le industrie obsolete e poco innovative devono poter fallire.
Questo non significa, quindi, lasciare al caso il destino di lavoratori e imprenditori, tutt’altro. Significa garantire un sistema in cui le imprese guidano l’innovazione e portano benessere a tutta la società, perché sanno che fermarsi significa morire e dover ricominciare da capo. Bisogna entrare nell’ottica che chi fa l’imprenditore non può pretendere di vivere di rendita.
Un nuovo modo di vedere la politica
Per fare ciò, tuttavia, bisogna svincolarsi dal modello per cui la sinistra difende la forza lavoro e la destra difende i proprietari dei mezzi di produzione. Quest’ottica marxistoide ha fatto il suo tempo e si è rivelata falsa. Quante volte la destra illiberale si è alleata con la sinistra sindacale per perpetuare situazioni di inefficienza? Quante volte lo sperpero del denaro dei contribuenti e il picconamento alla competitività del Paese sono stati mossi contemporaneamente da destra e sinistra? Spesso, con delle notevoli ma rare eccezioni.
Il capitalismo non dev’essere un sistema di élite, fatto dalle élite e per le élite. Altrimenti sarà la democrazia a vederne le conseguenze, perché sarà indebolita dalla moltitudine di cittadini che, non potendo entrare in circuito chiuso, si affideranno a narrazioni sempre più populiste. Abbiamo già vissuto e stiamo tutt’oggi vivendo questa fase, forse rileggere il volume di Rajan e Zingales può essere utile a uscire da questa crisi sistemica.