Si allarga il conflitto afgano, coinvolta anche l’India. La Nato perde posizioni
18 Luglio 2008
A quasi sette anni dalla liberazione dell’Afghanistan dal giogo dei talebani, le condizioni di sicurezza nel Paese sembrano in costante e rapido deterioramento. Le milizie fondamentaliste continuano a conquistare posizioni nelle province meridionali e orientali, mentre i contingenti Nato (Isaf) e Usa (Enduring Freedom), come le truppe regolari afghane, segnano più di una battuta d’arresto.
L’ultima si è avuta lo scorso martedì. Truppe americane hanno infatti abbandonato un avamposto nei pressi del villaggio di Wanat, nella provincia orientale del Nuristan, al confine con il Pakistan, teatro due giorni prima di un sanguinoso attacco sferrato da circa 200 militanti islamisti, che è costato la vita a nove soldati di Washington. Il più pesante tributo in termini di vite umane pagato dagli Stati Uniti in un singolo scontro negli ultimi tre anni.
Il comando Nato ha cercato di minimizzare l’accaduto. Il ritiro in questione sarebbe stato in realtà programmato prima che si verificasse l’attacco nemico. Alla popolazione locale è stato in ogni modo assicurato la prosecuzione dei pattugliamenti nella zona. Una spiegazione a dire il vero poco convincente. Quanto accaduto a Wanat non è un caso sporadico. Le forze internazionali nell’ultimo periodo hanno abbandonato checkpoint anche nelle vicine province di Kunar e Khost (dove imperversano anche le milizie di Gulbuddin Hekmatyar), anch’esse confinanti con il Pakistan. I raid talebani cominciano a dare i loro frutti in termini di controllo del territorio. Le autorità afghane latitano e gli unici luoghi sicuri sono le basi provinciali dei contingenti alleati.
Il confine tra queste province e le aree tribali pakistane (Fata, Federally Administered Tribal Areas) è considerato ormai il crocevia delle principali operazioni transfrontaliere dei militanti islamisti. Per arrestare il flusso di combattenti che dai rifugi del Pakistan lanciano poi attacchi in territorio afghano, la scorsa settimana, l’ammiraglio Mike Mullen (capo di stato maggiore della Difesa Usa) ha prospettato ai leader politici e militari di Islamabad la possibilità che le forze americane effettuino bombardamenti mirati sugli avamposti talebani e di al-Qaeda nel loro Paese.
Mullen non ha escluso, in seguito, che le forze della coalizione impegnate in Afghanistan – se ritenuto necessario – possano inseguire i militanti in fuga oltre confine, in territorio pakistano. Sconfinamenti delle truppe di Kabul erano stati già paventati la settimana scorsa dal presidente afghano Hamid Karzai. Le autorità di Islamabad, impegnate secondo molti nella solita tattica di compiere operazioni di facciata contro i talebani all’interno dei propri confini per lasciare poi loro mano libera in Afghanistan, si troverebbero in forte imbarazzo dinanzi alle prese di posizione di Washington.
Ashfaq Pervez Kayani, capo dell’Esercito di Islamabad, ha scaricato ogni responsabilità sul tema al potere civile. Dal canto suo, il primo ministro Yusuf Raza Gilani ha dichiarato che le decisioni su questioni militari le deve prendere Kayani. Insomma, una gran confusione, che non aiuta certo a riportare la cooperazione tra americani e pakistani nella lotta al terrorismo su un binario di fiducia.
I rapporti tra Stati Uniti e Pakistan sono probabilmente ai minimi storici dal settembre 2001. L’incidente del mese scorso, quando 11 paramilitari pakistani – scambiati per guerriglieri talebani – sono stati uccisi nel corso di un bombardamento aereo americano lungo il confine afghano-pakistano, ha scatenato le ire del governo di Islamabad. Un episodio che ha evidenziato la mancanza di comunicazione e coordinazione tra i due Paesi nelle operazioni contro i miliziani fondamentalisti.
Secondo alcuni, forse, un monito a Musharraf e all’esecutivo in carica, accusati da Washington di perseguire una pericolosa politica di appeasement nei confronti dei gruppi talebani locali. Gli accordi con il leader islamista Baitullah Mehsud (a capo di Tehrik-e-Taliban, l’organizzazione ombrello dei talebani pakistani) nel Waziristan del Sud e con Maulana Fazlullah nella Valle della Swat, sono due esempi – non isolati – della strisciante ‘libanizzazione’ del Pakistan, dove i militanti talebani (alla stregua di quanto fatto da Hezbollah con il governo di Beirut) si sostituiscono allo Stato nell’amministrazione di interi territori.
Una provincia pakistana, ad esempio, è praticamente sotto assedio. Nella North-Western Frontier Province, infatti, il governo locale guidato dall’Awami National Party (partito laico-nazionalista pashtun) lamenta la passività del potere centrale nel contrastare l’avanzata fondamentalista. Tutta l’area starebbe progressivamente passando sotto il controllo dei talebani. L’assenza delle forze di sicurezza nazionali, ha spinto i governanti locali a organizzare dei ‘comitati di difesa civili’, per poter far fronte agli attacchi dei militanti.
Un altro elemento di instabilità nel quadro dell’infinito conflitto afghano è il potenziale allargamento del teatro di crisi. Islamabad non riceve pressioni solo da Washington e Kabul, che minacciano di compiere operazioni militari sul suo territorio. Nel turbine politico-militare che si è scatenato lungo la vecchia linea Durand, sta entrando prepotentemente in scena anche l’India.
Delhi ha accusato senza mezzi termini l’Inter-Services Intelligence (Isi, la famigerata intelligence pakistana) di aver orchestrato il recente attacco suicida alla propria ambasciata di Kabul, costato la vita a 45 persone. L’India (come anche