Strategia nucleare nel XXI secolo. L’ultima lezione di Kissinger

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Strategia nucleare nel XXI secolo. L’ultima lezione di Kissinger

18 Luglio 2008

Il 1° luglio scorso l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, presente all’Aspen Insitute per un simposio in memoria di Giovanni Agnelli dal titolo “Italy, Europe and the USA: The transatlantic link and the future”, è stato invitato a pronunciarsi sul futuro dell’equilibrio nucleare nel mondo. Le sue considerazioni, peraltro molto sintetiche, sono state riportate sia dalle varie agenzie, sia all’interno di una bella intervista concessa a “La Stampa”. Ciò che appare è che secondo Kissinger l’eventualità di una proliferazione “orizzontale” – cioè l’aumento degli stati che posseggono quel tipo di armamento – sia foriera di maggiori rischi di instabilità internazionale e di un aumento delle possibilità di degenerazione in conflitti aperti. 

La necessità che i media debbano fare “notizia” in modo semplice e comprensibile per tutti è ovvia, ma l’eccessiva semplificazione non fa giustizia del pensiero del decano del realismo. Anche se per il grande pubblico il Diplomatico è l’architetto dell’apertura americana alla Cina popolare e l’estensore dell’exit strategy dal Vietnam (la meno peggiore possibile), per la quale ottenne il Nobel nel 1973, è bene ricordare che il suo principale contributo accademico è nel campo degli studi nucleari. Nel 1957, con il fondamentale Nuclear weapons and foreign policy, scritto quando lavorava al  Department of Government e al Center for International Affairs dell’Harvard University, Kissinger, per primo, fissa i termini per un approccio elastico all’arma nucleare, fino ad allora priva di un impianto teorico degno di nota. 

In quel lavoro vengono respinte le illusioni sia dei falchi alla LeMay che sosteneva la dottrina della massive retaliation, sia delle colombe alla Kennan e alla Nitze che con il NSC-68, fissando l’agenda della Limited war, cristallizzavano nel campo dell’improbabilità l’utilizzo dell’arma nucleare. Kissinger ebbe la lucidità di vedere  in questo tipo di armamento uno strumento politico effettivo e, quindi, graduale. Uno strumento che creava “suasione” (“persuasione” verso gli amici, “dissuasione” verso elementi ostili). Se l’operatività dell’arma nucleare pareva aver annullato quell’elemento che Clausewitz chiamava “frizione” (limiti fisici, materiali ecc.) che consentiva alla guerra di non ascendere mai al suo estremo, Kissinger, con il suo approccio duttile e profondamente laico, ricostruiva la “frizione” come elemento politico e strumento del bargaining presente nel crisis management nucleare. 

Secondo questa logica l’uso politico della deterrenza poteva avvenire non solo prima di un’eventuale guerra nuclearizzata, ma anche durante il suo svolgimento. Non è un caso che l’ipotesi del conflitto – al culmine della guerra fredda – prevedesse l’escalation nucleare fino al terzo Strike. Già solo da questa sintetica introduzione del pensiero kissingeriano si capisce che il ridurre le ultime considerazioni del diplomatico al semplice timore che la proliferazione nucleare crei instabilità è limitante e, soprattutto, inutile. Kissinger, piuttosto, sembra invitare, alla luce dei nuovi assetti internazionali che paiono delinearsi, a riformulare un nuovo approccio strategico, al fine di rivedere la funzione sia politica, sia militare di questo tipo di armamento. Ovviamente Kissinger non si muove solo, ma si inserisce in un filone di pensiero già strutturato al quale conferisce una maggiore autorevolezza. Non è un caso che il numero di luglio di Aspenia si intitoli “La seconda era nucleare” e che ad essa collaborino personaggi del calibro del nostro Jean, Michael Levi, di Arbatov e di Laqueur forse il più noto studioso del terrorismo e della guerra non convenzionale. 

Gli interrogativi sollevati da Kissinger, ed in parte ripresi sul citato numero di Aspenia, riguardano una ridefinizione stessa dell’approccio all’armamento nucleare. Funzionale al confronto tra le due superpotenze, esso ha visto la sua proliferazione prevalentemente nella sua dimensione verticale. Cioè  a fronte di un limitato numero di attori politici che si dotavano di armi nucleari, i sistemi d’arma si moltiplicavano esponenzialmente, a seconda delle opzioni strategiche ipotizzabili. Gli attori politici erano tutti direttamente coinvolti nel confronto bipolare o interessati ad un lieve smarcamento dallo stesso. Per questa ragione a Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna si unirono Cina – al fine di differenziarsi da Mosca e difendere la propria interpretazione del “Verbo” – e la Francia, che con la sua piccola force de frappe  ipotizzava la creazione di una deterrenza limitata a teatri di piccola entità. 

Su questa logica si è articolata tutta la strategia nucleare dagli albori fino all’avvento del XXI secolo. Il fatto che India, Pakistan ed Israele non avessero firmato il trattato di non-proliferazione nucleare non cambiava l’assetto generale. La certa – anche se mai dichiarata ufficialmente – adozione di armamenti nucleari da parte di Pakistan ed India rientra in dinamiche tutte interne ai rapporti tra le due potenze regionali e pare essere più una ostentazione di potenza e di “virilità” politica – per usare una figura che sarebbe stata cara a Fornari – piuttosto che uno strumento di azione politica. La pericolosità di questi arsenali è sempre stata nulla, semmai ora si pone il problema della loro sorveglianza.  L’altrettanto probabile arsenale nucleare israeliano ha una logica solo all’interno delle esigenze di sicurezza interna del paese. Non è un caso che lo stesso Kissinger ebbe a dire che Israele era il solo paese al mondo a non avere una politica internazionale, ma solo una politica interna (cioè legata alla sua sopravvivenza). L’abbandono del suo programma nucleare da parte del Sudafrica nei primi anni Novanta ha ulteriormente diminuito il numero dei possibili competitor strategici. 

Questo sistema si basava su presupposti entrambi positivi: la simmetria delle crisi politiche possibili in ambito bipolare e la “sacralità” che circondava i possessori stessi dell’arma nucleare. In questo modo, per quanto l’umanità potesse rischiare l’estinzione nucleare vi era la consapevolezza che gli arsenali erano controllati da individui politicamente “responsabili” che non avevano interesse a che scoppiassero incidenti, vista, anche, la forza che potevano mettere in campo gli avversari. Per evitare questi problemi era nata la “linea rossa” tra Washington e Mosca.

La fine della guerra fredda, ponendo termine al confronto bipolare senza aver costruito un nuovo equilibrio planetario, ha liberato le aspirazioni  di potenza di nuovi attori internazionali, siano essi Stati o organizzazioni politiche non statuali. Queste aspirazioni si sono materializzate nel desiderio di ottenere lo status di potenza nucleare, cioè di attore politico di primaria importanza. Queste aspirazioni, che potrebbero essere anche definite “legittime” su di un piano astratto, vedono però la presenza massiccia, se non esclusiva di quelli che in Occidente vengono definiti  rogue states. La potenziale instabilità di questi attori è ciò che preoccupa, piuttosto che il possesso semplice di armamenti nucleari. La sola detenzione di armamenti nucleari poco significa su di un piano militare e strategico. 

Innanzitutto si deve partire dall’assunto che queste armi – in un contesto ordinario – contano molto meno dei propri vettori e sistemi di guida. E’ più importante il peso del sasso che intendo lanciare o la forza e la precisione del mio braccio? Davide diede la risposta migliaia di anni fa. I recenti esperimenti iraniani relativamente ai missili Shahab 3 non dimostrano molto sulle capacità di Teheran. Poco probabilmente le forze armate degli ayatollah potranno essere strategicamente in grado di saturare i sistemi difensivi israeliani (tanto per fare un esempio). Il sistema satellitare di Teheran potrebbe essere oscurato con facilità, facendo retrocedere le capacità di CEP iraniane a livello degli anni Cinquanta. 

Il vero pericolo di questa proliferazione non sta, quindi, nel possesso degli armamenti, ma nell’asimmetria strategica tipica di questo inizio di nuovo millennio e nella tipologia dei nuovi attori coinvolti. L’impianto strategico occidentale è stato elaborato per affrontare una minaccia diretta e prevedibile, le tensioni internazionali odierne lasciano aperte le possibilità di focolai di crisi nucleare su una ampia molteplicità di teatri e mediante metodi di fronte ai quali i sistemi difensivi fino ad ora elaborati sono impotenti. Se  un attacco con mezzi “convenzionali” (missili, bombardieri strategici, ecc.), ancorché massiccio, da parte di una media potenza regionale potrebbe essere smorzato con relativa facilità dai sistemi occidentali, non vi sono mezzi di difesa se l’armamento nucleare venisse affidato a gruppi terroristici abituati ad attacchi suicidi. Solo l’intelligence potrebbe essere utilizzata, ma possibilità di smagliature sono più che realistiche.

Inevitabile conseguenza dell’adozione di armamenti nucleari da parte di potenze “instabili” sarebbe la arms race da parte di vicini che potrebbero –  a vario titolo – sentirsi minacciati. Una eventuale bomba coreana (anche se Pyongyang ha ridotto di molto la sua minaccia) porterebbe sia Seul, sia Tokyo ad interrogarsi sulla possibilità di dotarsi di armamento nucleare. Parimenti una nuclearizzazione delle forze armate iraniane spingerebbe l’Arabia Saudita – perché sunnita e protettrice dei luoghi santi dell’Islam –,  la Turchia – perché potenza laica – e forse l’Egitto – perché è il principale paese del mondo arabo – a cercare armamenti nucleari. Nulla esclude, oltre a ciò, che in altri continenti, come il Sud America, vi siano degli attori in cerca di una sempre più chiara sovraesposizione politica, che aspirino ad entrare nell’esclusivo club nucleare. 

La sfida che viene posta di fronte all’Occidente e alla stessa idea di equilibrio di potenza è di dimensioni epocali. Devono essere ricreati dalla base tutti gli item della programmazione strategica, senza sapere – purtroppo – le mutazioni degli assetti internazionali neppure a medio termine. Non è neppure escluso che il tabù della guerra nucleare preventiva, che pareva ormai consolidato da decenni (almeno in campo occidentale) possa essere conservato. La nuova era nucleare, così, per riprendere il titolo del lavoro di Carlo Jean,  non vede più il rischio dell’olocausto nucleare, su cui si basava il MAD (reciproca distruzione assicurata), ma la possibilità di un fiorire di piccoli conflitti nucleari locali. L’arma nucleare sta perdendo la sua “sacralità” e la programmazione strategica ne deve prendere atto.