Se Ue e Usa si dividono le soluzioni saranno peggiori del problema
14 Ottobre 2008
All’inizio c’erano la rabbia o la stupefazione, che attutiscono i colpi della storia, ma ormai molti ne scrivono: in queste settimane è accaduto qualcosa di molto più grave della crisi finanziaria mondiale. Il tramonto dell’Occidente, su cui da cent’anni con gran daffare ci si adopera, oltre a filosofare, in ogni continente ma specie in Europa, stavolta assume dei contorni concreti. Non perché le banche falliscono, le borse precipitano e le aziende si trovano di fronte a una crisi creditizia che potrebbe trasformare la bolla dei mutui in una recessione globale. Le crisi, tante persone sagge ce l’hanno ricordato in queste giornate nere, appartengono alla storia del capitalismo, alla funzione – dura da accettare, ma virtuosa – di distruzione creatrice che il mercato ha connaturata.
E’ in corso una guerra senza armi, che distrugge, al contrario della bomba al neutrone, le cose e i patrimoni ma non le persone. Come in ogni guerra non saranno per lo più i generali a caderne vittime, ma soprattutto la popolazione inerme degli azionisti di massa, dei contribuenti, e il popolo minuto dello stato sociale. Oltre, naturalmente, a quei cento milioni di nuovi poveri non occidentali di cui già da mesi, ben da prima che la crisi dei subprime assumesse la forma dell’uragano planetario, andava parlando la Banca Mondiale, che ne elencava alcune cause: sussidi della produzione agricola per giunta incentrati sui cosiddetti ‘biocarburanti’, aumento del costo del gasolio e dei fertilizzanti, consumo di carne in rapida crescita nei paesi asiatici con conseguente devoluzione di grandi quantità di cereali agli allevamenti, una speculazione finanziaria che nei primi mesi dell’anno aveva fatto alzare i prezzi alimentari in maniera allarmante.
Oggi lo scenario è molto cambiato, apparentemente in peggio, ma chissà: se il crollo delle borse ci facesse capire che la strada della ubris finanziaria era sbagliata anche per noi ricchi, oltre che per i poveri, alla fine ne trarremmo tutti un vantaggio. E’ duro il modo in cui il mercato si tutela contro i mercatisti (come direbbe Tremonti), poiché il mercato acceca chi lo idolatra come un vitello d’oro (questo direbbe Papa Ratzinger). Vero, ma, come direbbe Milton Friedman, va ricordato che il capitalismo, regolato dal meccanismo del libero mercato, è innanzitutto un’espressione della libertà umana, e per giunta funziona. Vedrete che se la politica non farà troppi danni il mercato rinascerà presto come fenice dalle sue ceneri. Imprenditori sostituiranno gli imprenditori, finanzieri i finanzieri. Alla fine della guerra ci saranno milioni di nuovi ricchi, quelli che si rimboccano le maniche e gli inevitabili profittatori, e l’economia ricomincerà a girare nella giusta direzione, quella del profitto.
Ma lo scenario politico del mondo questa volta rischia davvero di esserne modificato drammaticamente in peggio, e senza rimedio. Avevamo visto Sarkozy all’opera, nelle prime settimane della sua presidenza di turno alla guida dell’Ue. Per un momento era sembrato che l’Europa cominciasse a svolgere un ruolo significativo. L’attacco russo alla Georgia aveva trovato nella mediazione del presidente francese un freno efficace, bene o male era stato imposto nero su bianco un confine all’arroganza putiniana, mentre Bush non sembrava capace di far corrispondere le parole ai fatti. Alla fine, complice certo la caduta a precipizio dell’economia russa, parallela a quella americana, ma persino più consistente, la Russia aveva dato attuazione all’accordo sottoscritto con l’Europa.
Poi la crisi finanziaria, il fuggi fuggi europeo da una responsabilità comune, l’Irlanda che cerca di approfittarne ai danni della Gran Bretagna, lo scontro Francia-Germania, l’Islanda che si fa assistere dalla Russia e tradisce Londra, sullo sfondo il brancolare di tutti alla ricerca di soluzioni autarchiche. E gli Usa che si isolano dal resto del mondo e cercano di imporre una linea d’azione che comporta enormi rischi di statalismo e per giunta si rivela inefficace.
Fino al G7 di Washington sembrava davvero che l’Occidente, Usa da un lato patrie europee dall’altro, avesse perso ogni consapevolezza dei suoi straordinari e meritati successi, e delle connesse responsabilità. Ora che le cose sembrano cambiate vedremo se i nuovi provvedimenti riusciranno a invertire il corso della crisi. Al di là del merito dell’accordo sarà però la capacità di confermare o no l’influenza politica, l’egemonia culturale, la tenuta dei principi di libertà e democrazia che giocheranno un ruolo decisivo per Usa e Europa quando si uscirà dalla crisi. Perché la vera domanda non è se, ma dove usciremo dalla crisi.
Se ne potrà uscire a Oriente, con una ripresa dell’autoritarismo, del paternalismo, dello statalismo, con un’America depressa e incupita, e con la ricaduta dell’Europa nel suo endemico cupio dissolvi. Dio ce ne scampi. Oppure no, se ne uscirà di nuovo a Occidente, ritrovando la forza di usare le risorse della politica e dello Stato con prudenza ma energia, ma soprattutto di consolidare le istituzioni transnazionali fra gli stati dell’Europa e di inventare nuove istituzioni che leghino formalmente Europa e Stati Uniti. Il benessere e la pace ci hanno intorpidito, chissà che una calamità finanziaria non ci risparmi decenni di devastazione politica.