Nei giorni scorsi le truppe russe si sono ritirate all’interno delle due regioni secessioniste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, abbandonando la fascia di territorio georgiano circostante le due enclave occupata dallo scorso agosto. In questo modo Mosca ha adempiuto in parte all’accordo mediato da Nicolas Sarkozy, nella duplice veste di capo di stato francese e presidente di turno dell’Unione Europea, per arginare la crisi caucasica. Appena la 58° armata russa ha abbandonato le ultime postazioni, la polizia georgiana ha ripreso il controllo di questa porzione di territorio nazionale mentre la missione degli osservatori dell’Ue ha preso posizione nelle città di Poti, Zugdidi, Gori e Basaleti a ridosso delle due regioni, oltre che ovviamene a Tbilisi. In questo quadro, il 15 ottobre prenderà avvio a Ginevra la conferenza internazionale indetta per discutere della questione georgiana. Quali sono i rapporti di forza sul terreno con cui la diplomazia dovrà confrontarsi? Quale il margine di manovra dei mediatori europei tra le opposte pretese russe e georgiane?
Il rapporto di forze nel Caucaso dopo la guerra di agosto è nettamente migliorato a favore di Mosca. Il Cremlino infatti non solo ha inflitto pesanti danni alle forze armate e alle infrastrutture militari e civili della Georgia, ma ha segnato alcune importanti vittorie tattiche. In primo luogo ha cacciato con la forza dalle due regioni separatiste migliaia di abitanti leali al governo di Tbilisi, consolidando così l’orientamento filo-russo di Abkazia e Ossetia del Sud. In secondo luogo Mosca ha approfittato della crisi per dispiegare in modo permanente circa 7-8.000 soldati nelle due regioni, violando così parte dello stesso accordo mediato da Sarkozy che prevedeva il ritorno delle forze militari di entrambi le parti alle postazioni precedenti lo scoppio delle ostilità. La Russia ha inoltre colto l’occasione della crisi per riconoscere formalmente l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud dalla Georgia. Infine, Mosca ha chiarito oltre ogni dubbio che è pronta a usare tutta la forza militare di cui dispone per affermare i propri interessi nel “vicino estero”. Il risultato di questi successi tattici è che ogni ambizione georgiana di ristabilire manu militari la propria sovranità sulle due regioni separatiste è seppellita, almeno per il prossimo futuro. Di fatto, Tbilisi e l’Ue devono fare i conti con una propaggine della Russia in territorio georgiano. Che Mosca eserciti pienamente la propria autorità sulle due regioni è testimoniato, tra l’altro, dal divieto agli osservatori europei di entrare in Abkhazia e Ossezia del Sud imposto direttamente dal Cremlino.
Sulla base della situazione sul terreno, i russi si presentano al tavolo delle trattative decisi ad ottenere una forma di riconoscimento internazionale del fatto compiuto, o per lo meno a mettere pesantemente in discussione l’autorità della Georgia sulle due regioni separatiste. All’opposto, i georgiani almeno in linea di principio puntano a una soluzione che salvaguardi l’integrità territoriale del loro paese e in qualche modo riporti Abkhazia e Ossezia del Sud sotto l’autorità di Tbilisi. La questione dei rifugiati, delle responsabilità in merito all’inizio del conflitto, e dei danni materiali cui fare fronte, faranno da contorno alla questione centrale della sovranità sulle due regioni. L’Ue a sua volta si presenta alla conferenza forte dei risultati fin qui raggiunti dalla sua politica estera in Caucaso. Con gli Stati Uniti bloccati dalle incombenti elezioni presidenziali, e la stessa amministrazione Bush colta alla sprovvista dal precipitare degli eventi, l’Ue ha dovuto e saputo giocare un ruolo di primo piano. Grazie anche alla fortuna di avere come presidente di turno un leader del peso di Sarkozy (una prova in più di quanto sia necessario attuare in fretta il Trattato di Lisbona che rafforza il presidente del Consiglio Europeo), l’Ue è riuscita a negoziare un accordo temporaneo che, pur tra difficoltà e ritardi, ha contribuito a porre fine al conflitto, ha salvato il salvabile dell’integrità territoriale georgiana, e ha permesso il dispiegarsi di una robusta missione di osservatori europei. Un risultato non di poco conto, da cui ora occorre partire per sviluppare una politica di stabilizzazione della regione.
Del futuro del Caucaso si è parlato di recente a Londra in un convegno organizzato dal prestigioso think tank "Chatam House", alla presenta di importanti esperti della regione, funzionari e consulenti della Nato e dell’Osce. Un primo spunto di riflessione emerso nel dibattito riguarda il rapporto con gli attori regionali del Caucaso. Non a torto è stato sostenuto che l’Ue dovrebbe far partecipare alla Conferenza di Ginevra i rappresentanti dei governi provvisori di Abkhazia e Ossezia del Sud: se infatti questo da un lato appare – ed è – uno schiaffo alla Georgia in quanto si attribuisce lo status di interlocutore internazionale agli pseudo-governi delle due province, per di più pesantemente controllati da Mosca, dall’altro lato una mossa del genere impedirebbe che le rivendicazioni abkaze e ossete siano portate avanti solo dalla Russia. In tal modo si eviterebbe di spingere ulteriormente Abkhazia e Ossezia tra le braccia russe e si aprirebbe l’opportunità di una negoziato intra-georgiano meno influenzato dall’ombra del Cremlino. Una seconda interessante riflessione riguarda l’aspetto economico della questione. Le due regioni separatiste erano pesantemente dipendenti a livello economico dalla Georgia. La rottura dei rapporti commerciali negli scorsi mesi da un lato ha indebolito questo legame, che comunque costituisce un disincentivo alla guerra civile, dall’altro ha spinto le due regioni a una maggiore dipendenza economica dalla Russia. L’Europa, attraverso gli opportuni strumenti economico-istituzionali, dovrebbe sostenere adeguatamente lo sviluppo e l’integrazione economica del Caucaso per creare un ambiente socio-economico favorevole al processo di pace. Ovviamente, in un contesto dominato dai rapporti di forza militari e dalle esigenze di sicurezza, l’economia non può essere il fattore risolutivo della crisi, ma costituirebbe comunque un utile supporto all’azione politica.
Più in generale, secondo le opinioni espresse a Chatam House, Europa e Stati Uniti devono fare realisticamente i conti con quello che attualmente la Russia vuole e può fare nel suo “vicino estero”. Il comando Nato ha già cominciato a porsi il problema, annunciando che a causa della guerra di agosto riesaminerà le valutazioni sulla sicurezza dei suoi stati membri, e i conseguenti piani di emergenza per le truppe alleate, per adeguarli alla nuova realtà geopolitica. Di fatto, se l’accordo definitivo tra Usa, Polonia e Repubblica Ceca sullo scudo antimissile ha sancito la piena integrazione dell’Europa nord orientale nel sistema di sicurezza euro-atlantico, stabilizzando in qualche modo la linea di confine con la sfera di influenza russa, l’area del Mar Nero con Ucraina e Georgia costituisce invece un limes molto più incerto e controverso. Nel breve periodo, essendo fuori portata dopo l’invasione russa il ristabilimento dell’autorità georgiana sulle regioni secessioniste, l’obiettivo primario è evitare altre crisi che possano destabilizzare la Georgia e sostenere lo sviluppo economico e democratico di Tbilisi, quale incentivo a una futura soluzione dell’assetto regionale. In Ucraina, considerando la profonda divisione del paese tra la fazione filo-occidentale e quella filo-russa e la conseguente instabilità di governo, la priorità per la Nato è rafforzare la partnership con Kiev per consolidare sia l’aspetto istituzionale che quello militare della sicurezza del paese. Quanto alla questione dell’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato, tutti guardano al prossimo presidente americano per capire se la questione sarà affrontata nel 2009 o rimandata a data da destinarsi. Non si può infatti dimenticare che, per quando sembri strano, una curva della strada tra Bruxelles, Mosca e Tbilisi, passa sempre per Washington.