Bertinotti fa i conti con Praga ma dimentica gli errori di Dubcek

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Bertinotti fa i conti con Praga ma dimentica gli errori di Dubcek

02 Novembre 2008

Fausto Bertinotti si è esercitato in un tardivo mea culpa: “La rivoluzione di Praga fu lasciata sola. E’ onesto dire che le migliaia di giovani che manifestavano da Berlino a Parigi, a Roma a Milano, non riconobbero i loro fratelli della Primavera di Praga, non videro che, nel cuore dell’Europa, c’era qualcuno che parlava del loro futuro”. Troppo elitari e ideologizzati, i sessantottini italiani non potevano comprendere il significato di quello che stava accadendo nella democrazia socialista cecoslovacca.

Questa dichiarazione ha provocato la reazione stizzita di Pietro Ingrao, il grande vecchio del marxismo italiano: “Scrissi di mio pugno la condanna dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia – ha detto Ingrao – e la sconfitta di Dubcek fu la nostra”. Di mezzo c’è anche il viaggio che Luigi Longo fece a Praga a ridosso della invasione: “Fu un colpo di fulmine, l’Urss ci aveva assicurato che non sarebbe intervenuta”. 

Le giornate di Praga sono state una pagina coraggiosa all’interno del movimento riformatore socialista che interessò alcuni Paesi dell’Europa Orientale durante la Guerra Fredda. Il primo capitolo di quel lento processo che ha trasformato la Repubblica Ceca e la Slovacchia in due stati europei e schierati con l’Occidente. Ma la commemorazione dell’“altro ‘68” dovrebbe ricordare anche i limiti della svolta di Dubcek, quelli che furono i passi falsi del governo cecoslovacco. Un argomento meno noto della sciagurata reazione di Mosca.

I riformisti di Praga non erano dei radicali. Non potevano permetterselo per una serie di ragioni storiche interne e di ordine geopolitico. Quando Dubcek prese il potere godeva di un forte consenso popolare e di un’economia statica ma non completamente in crisi. Il suo governo veniva dopo le proteste e i tumulti che nel decennio precedente, dalla Polonia all’Ungheria, avevano incrinando il mito dell’unità fraterna tra i Paesi socialisti. Il totalitarismo sovietico era stato messo in discussione e per timore (o per astuzia) i riformisti cecoslovacchi tennero un profilo basso. Non volevano fare innervosire gli stalinisti.

Nei documenti ufficiali del Partito Comunista Cecoslovacco (PCC), e nel “Piano d’azione” messo a punto dall’esecutivo di Dubcek, non c’era una presa di distanza netta dall’Urss. Mosca rimaneva l’alleato di riferimento e la Cecoslovacchia avrebbe obbedito alle ragioni strategiche del Patto di Varsavia. Solo dopo l’intervento sovietico i riformisti cecoslovacchi strizzarono l’occhio ai non-allineati. Anche le riforme di politica interna ebbero un taglio moderato e tutto sommato insufficiente se guardiamo alla evoluzione storica della Cecoslovacchia nei decenni successivi. 

Il "socialismo dal volto umano" di Dubcek prometteva un ritorno al “pluralismo” politico ma i vecchi socialdemocratici, i gruppi militanti come gli Scout o i movimenti di base come il KAN (l’associazione degli apartitici impegnati) – per non parlare delle forze religiose o legate alla “reazione borghese” – rimasero tagliati fuori dalla gestione del potere. La partita continuava ad essere giocata esclusivamente all’interno del PCC, tra riformisti e conservatori. 

I consiglieri economici di Dubcek puntavano verso un sistema di tipo volontaristico che nelle loro intenzioni avrebbe realizzato il secondo stadio nella evoluzione della società comunista, quella dell’autogestione. La nuova democrazia socialista avrebbe ridato spazio all’individuo contenendo lo statalismo sempre più opprimente. Ma il mito autogestionario – pensiamo all’esperienza jugoslava – non ha prodotto grossi risultati. Poteva migliorare le cose solo se i Balcani  e l’Europa comunista fossero rimasti ostili ed estranei al mercato e alla competizione globale.

In realtà dopo la “normalizzazione” di Mosca alcune riforme sarebbero rimaste in vita se pure edulcorate. Per esempio il federalismo, un altra delle battaglie inserite nel “Piano d’azione” dei riformisti per garantire uno sviluppo economico e sociale paritario tra le due anime,  ceca e slovacca, del Paese. Vale ancora il paragone con la Jugoslavia. L’idea confederale di Tito non fu in grado di andare oltre i localismi e le rivendicazioni di stampo etnico e settario. Le infinite guerre balcaniche degli anni Novanta sono la dimostrazione di quel fallimento. La camera di compensazione federale apparve un travestimento del centralismo più o meno autoritario dei sistemi comunisti.

Anche la Cecoslovacchia, alla fine dei conti, ha dovuto scindersi in due diverse entità statuali, per fortuna senza spargimenti di sangue. Questo passaggio indolore è avvenuto anche grazie agli “illuminati” come Dubcek: la Cecoslovacchia nel ‘68, e dopo, sperimentò davvero un cambiamento politico. La Jugoslavia invece si limitò a sostituire il titoismo allo stalinismo, creando un regime più light di quello sovietico ma condannato all’estinzione.

C’è un altro limite della rivolta di Praga. La battaglia per la libertà di parola. I riformisti cecoslovacchi ebbero sicuramente un merito: abolire la censura e rianimare il dibattito politico e culturale fiduciosi di poter contenere in questo modo le spinte dal basso. Ma i moderati non gradirono le spinte radicali provenienti dalle nicchie più acculturate e cosmopolite della popolazione che non si accontentavano del gradualismo di Dubcek e del pensiero unico socialista.

Pensiamo agli estensori del “Manifesto delle 2000 parole” che espressero senza mezzi termini la portata antitotalitaria delle giornate di Praga. Ebbene, questi gruppi più disponibili ad aprirsi verso l’Occidente furono costantemente criticati e tenuti sotto pressione dalla dirigenza del partito. I  radicali furono accusati di essere dei “provocatori” che, con la loro avventatezza, avrebbero nuociuto alla realizzazione del “Piano di azione”, favorendo la reazione dei conservatori fedeli a Mosca.

Gli autori delle “2000 parole” sono gli stessi che dieci anni più tardi, alla fine degli anni Settanta, sottoscrissero il documento “Charta 77″. Superando ogni moderazione, i nuovi riformatori si preparavano ad affrontare la scelta di campo del decennio successivo: il passaggio a una economia di mercato, la soluzione condivisa delle rivendicazioni etniche attraverso una separazione consensuale e la scelta del campo occidentale sotto l’ombrello della Nato.

L’intervento sovietico in Cecoslovacchia fu sicuramente una mossa infelice per l’URSS. La Primavera di Praga divenne una macchia per il Cremlino e l’icona di tutti quelli che si battevano contro il regime sovietico. Alcune delle richieste di cambiamento avanzate dai cecoslovacchi nel ‘68 furono attuate durante la normalizzazione sovietica. A testimonianza che il riformismo di Dubcek era coraggioso ma debole, innovativo ma non competitivo, democratico ma poco libertario. Insomma non era liberale.

Tutte qualità che invece ritroviamo in “Charta ‘77″, ovverosia in quegli intellettuali antitotalitari che hanno condotto fino in fondo la loro critica del comunismo novecentesco. Molto più avanti di quanto hanno fatto Ingrao, Bertinotti, e persino Veltroni.