In Congo l’Onu non è la soluzione ma il problema

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In Congo l’Onu non è la soluzione ma il problema

06 Novembre 2008

Il primo convoglio ONU di aiuti umanitari ha iniziato la distribuzione di cibo, acqua e medicinali nel Nord Kivu, la regione orientale della Repubblica Democratica del Congo in cui l’offensiva del movimento antigovernativo guidato da Laurent Nkunda, il Cndp, ha messo in fuga circa 100.000 persone ora sprovviste di tutto e bisognose di aiuto.

Intanto la diplomazia internazionale tenta di organizzare al più presto un incontro tra il presidente del Congo, Joseph Kabila, e quello del Rwanda, Paul Kagame, ritenuto responsabile della crisi in atto per il sostegno fornito a Nkunda, grazie al quale il Rwanda attinge illegalmente da anni alle preziose materie prime delle ricche regioni dell’est congolese. L’Unione Africana ha incaricato di seguire la vicenda Ibrahima Fall, ex rappresentante del segretario generale dell’Onu per la regione dei Grandi Laghi. Inviato speciale per le Nazioni Unite è stato nominato l’ex presidente della Nigeria, Olusegun Obansajo. Il Palazzo di Vetro inoltre ha provveduto a sostituire alla guida della Monuc, la propria missione di peacekeeping, il generale spagnolo Vicente Diaz de Villegas che ha rinunciato all’incarico a due mesi soltanto dalla nomina: il mandato è stato affidato per i prossimi sei mesi al generale senegalese Babacar Gaye, già capo militare della missione dall’aprile del 2005 all’agosto 2008.

Proprio sulla Monuc sono puntati gli occhi della comunità internazionale e finalmente si dice quel che da troppo tempo è stato taciuto, nonostante l’evidente urgenza di affrontare il problema: la missione è inefficace così come tante altre iniziative intraprese dalle Nazioni Unite per prevenire e risolvere i conflitti e per combattere la mancanza di democrazia e le violazioni dei diritti umani che vanificano i progetti e le speranze di sviluppo in Africa.

Con oltre 16.000 unità e un budget annuale superiore a un miliardo di dollari, la missione nella Repubblica Democratica del Congo, operativa dal 2000, è la più importante e costosa mai realizzata dalle Nazioni Unite. Le sue regole di ingaggio includono l’uso di “qualsiasi mezzo ritenuto necessario a proteggere i civili da immediate minacce di violenza fisica e a migliorare le condizioni di sicurezza” delle aree in cui è chiamata a intervenire. Ma i caschi blu hanno deluso le aspettative tanto da indurre le popolazioni congolesi esasperate a ribellarsi. Le proteste più recenti contro le Nazioni Unite risalgono a fine settembre quando sono insorti ripetutamente gli abitanti della regione nord orientale del paese, al confine con Sudan e Uganda, vittime delle incontrastate razzie del “Lord Resistance Army”, il feroce, temutissimo movimento armato nato 20 anni fa in Uganda che, da oltre due anni, ha stabilito le proprie basi nel parco nazionale della Garamba, in territorio congolese.

L’ultima contestazione popolare si è svolta a Dungu, una cittadina in cui i guerriglieri Lra a metà settembre, dopo aver rubato, ucciso a sangue freddo e incendiato case, scuole e tutto ciò che non potevano portare via, hanno rapito un centinaio di ragazzini di cui non si è più saputo nulla: furiose per l’inerzia della Monuc, centinaia di persone hanno attaccato e saccheggiato gli uffici degli osservatori ONU e quelli dell’Ocha, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli affari umanitari, prima di essere disperse dalla polizia.

Ma c’è di peggio. Di tutte le missioni ONU la Monuc è quella che ha accumulato più denunce relative ad atti di corruzione e a violazioni dei diritti umani commessi dal suo personale. Dei caschi blu uruguayani, ad esempio, sono stati accusati di aver rubato della benzina per rivenderla ai gruppi armati che, all’epoca dei fatti, si contendevano il controllo di Bunia, la capitale dell’Ituri, un’altra regione orientale del Congo. Altri caschi blu hanno saccheggiato una chiesa portando via per cibarsene le ostie e il vino santo. Fatto più grave, il personale ONU – e non soltanto in Congo – è responsabile di violenze e abusi nei confronti dei civili, soprattutto casi di stupro di donne e bambini. L’ultimo scandalo è scoppiato lo scorso agosto quando dei caschi blu indiani sono stati denunciati per abusi sessuali su minori.

La frequenza e la gravità dei reati compiuti già nel 2003 hanno indotto Amnesty International a reclamare che “il personale Monuc ricevesse un’adeguata preparazione sugli standard internazionali dei diritti umani” prima di essere assunto. Tre anni dopo la “Asian Human Rights Commission” e “l’Asian Legal Resource Centre” chiedevano alle Nazioni Unite di ritirare gli oltre 10.000 soldati bengalesi impegnati in operazioni di peacekeeping, inclusa la Monuc. Un dossier di 140 pagine rivelava che gran parte dei militari bengalesi destinati alle missioni ONU appartengono al Rab, il battaglione creato nel 2004 per fronteggiare il terrorismo, e sono responsabili di omicidi, torture, stupri, intimidazioni e altri abusi: “il Rab opera nella più completa illegalità”, spiegavano gli autori del dossier “agiscono nella certezza dell’impunità, con licenza di uccidere”; impiegati in missioni estere rappresentano non una garanzia, ma una minaccia per la popolazione civile.

Dunque, per “far funzionare quel che c’è”, come suggerisce la Farnesina replicando alla proposta della Gran Bretagna di inviare eventualmente truppe dell’Unione Europea come nel 2006 in occasione delle elezioni generali che avrebbero dovuto porre fine alle ostilità, occorrono più che nuovi mezzi e uomini, di cui c’è abbondanza, buona condotta, disciplina, motivazione. Caso mai, toccherebbe piuttosto all’Unione Africana e ai suoi caschi verdi sostituire o integrare la Monuc. Ma, visto il fallimento delle due missioni di peacekeeping africane, la Amis in Sudan e la Amisom in Somalia, sarebbero probabilmente altro tempo e altri soldi sprecati.