Con Mumbai il governo indiano paga anni di resa al terrorismo
01 Dicembre 2008
Come spiegare il massacro che ha sconvolto Mumbai in questi giorni? Viene quasi la tentazione di archiviarlo come un altro spiacevole episodio che rientra nel fallimentare sforzo dell’India di combattere il terrorismo. Negli ultimi quattro anni, i gruppi islamici hanno colpito, tra gli altri, Nuova Delhi, Jaipur, Bangalore e Ahmedabad.
Il numero delle vittime del terrorismo – senza contare i morti a Mumbai tra mercoledì e giovedì – è superiore a 4000, cifra che rende l’India il paese più colpito e con il maggior numero di vite stroncate dal 2004 rispetto a qualsiasi altro paese – ad eccezione dell’Iraq.
L’esercito indiano ha preso posizione a Mumbai il 27 novembre 2008. Ma questi attacchi, sebbene abbiano evidenziato la particolare vulnerabilità dell’India di fronte alla violenza dei terroristi, rappresentano anche un avvertimento per tutti quei paesi che credono nei valori di cui Mumbai è simbolo per gli indiani: pluralismo, iniziativa e apertura della società.
In poche parole, il fallimento dell’India nel proteggere la sua principale città rappresenta per tutte le democrazie un perfetto esempio del comportamento da non adottare nella lotta contro i militanti islamici.
La lista degli errori è molto lunga. A differenza dei leader dell’Occidente, o dell’Asia Orientale, quelli dell’India, litigando costantemente tra loro, non sono riusciti a mettere la sicurezza nazionale al primo posto, al di sopra delle divisioni politiche.
Nella lotta al terrorismo gli sforzi di Delhi sono sempre stati atti di reazione, episodici, piuttosto che dinamici e prolungati. La posizione pubblica assunta nei confronti dell’Islam oscilla tra un rude fanatismo anti-musulmano e un insensato sostegno alle azioni ingiustificate dei musulmani, che sono la causa di tante polemiche.
Il fatto di non riuscire né ad attrarre né ad intimidire i suoi vicini filo-islamici – il Pakistan e il Bangladesh – è un chiaro segnale di come l’India non sia in grado di padroneggiare l’arte del buon governo. Infine, l’incapacità di modernizzare la popolazione musulmana, con ben 150 milioni di individui – la seconda più numerosa dopo quella dell’Indonesia – ha generato una comunità che non è in grado di cogliere le nuove opportunità economiche e che si mostra sensibile al fascino dei militanti di fede islamica.
Sicuramente non tutti i problemi dell’India derivano dalle sue stesse azioni. Basti pensare al fatto che, come vicino, si ritrova il Pakistan, un paese fondato su basi religiose, il cui governo – insieme a quelli dell’Iran e dell’Arabia Saudita – è stato a lungo uno dei luoghi principali da cui si è sprigionato il fervore degli attivisti islamici.
Anche il Bangladesh ospita una panoplia di gruppi jihadisti. Come in Pakistan, infatti, qui la visione mondiale dei fanatici dell’Islam sembra essere largamente condivisa, tanto da impedire di contrastare in modo significativo coloro che si rifugiano regolarmente nel paese bengalese per pianificare attacchi contro l’India.
Anche la fallimentare politica americana nei confronti del Pakistan – troppe carote e pochi bastoni – ha contribuito a creare in quella regione una situazione di grave instabilità. Tuttavia, come risposta alla maggior parte degli attacchi terroristici, l’India si limita a ripartire le colpe piuttosto che a cercare una soluzione che possa impedire, o quanto meno minimizzare, l’eventualità che il problema si ripresenti.
Persino l’Indonesia – una nazione ancora povera, a maggioranza musulmana, dove la solidarietà ai militanti è ben più profonda rispetto all’India – ha agito in modo infinitamente più saggio nel riconoscere che proteggere la vita dei propri cittadini rappresenta l’assoluta priorità per ciascun governo. Una forza federale anti-terrorismo, chiamata "Detachment 88", ha garantito sicurezza al paese, senza alcun attacco terroristico in più di tre anni.
Al contrario, i leader dell’India – che senza sosta gironzolano qua e là protetti da guardie del corpo pagate dai cittadini che versano le tasse – non riescono neanche a mettersi d’accordo sul quadro legale necessario a garantire la sicurezza dello stato. Appena giunto al potere nel 2004, il partito del Congresso Nazionale indiano (Indian National Congress), tra i suoi primi atti, ha abolito la legge federale anti-terrorismo, che assicurava una maggiore protezione ai testimoni e più potere alla polizia.
Il partito del Congresso aveva bloccato la legislazione, sempre al livello statale, anche nel paese di Gujarat, guidato dal Partito indiano del Popolo (il Bharatiya Janata Party – BJP) indu-nazionalista e all’opposizione. Ed è stato sempre un governo diretto dal Congresso a prostrarsi di fronte alla pressione dei fondamentalisti, portando l’India ad essere il primo paese a proibire nel 1988 i “Versetti Satanici” di Salman Rushdie, autore nato a Mumbai.
Neanche l’opposizione del BJP si è però distinta in un simile contesto. Nel 1999 il dirottamento di un aereo indiano verso l’Afghanistan, a quel tempo governato dai Talebani, portò un governo guidato dal BJP a rilasciare tre pericolosi militanti, tra i quali Omar Sheikh Saeed, l’ex studente della London School of Economics, che più tardi avrebbe ucciso il reporter del Wall Street Journal Daniel Pearl.
Più di recente, il partito BJP, guidato da solidarietà tribali e religiose e con una certa propensione ai complotti, non è riuscito a richiedere per presunti terroristi hindu lo stesso duro trattamento invocato per quelli musulmani. Partiti minori, soprattutto quelli che dipendono dal voto dei musulmani, sono in competizione tra loro per ottenere l’appoggio dei fondamentalisti.
In breve, dunque, l’approccio indiano al terrorismo si è regolarmente dimostrato casuale e disordinato, privo di una qualsivoglia forza o determinazione. Nell’affrontare le richieste dei fondamentalisti, i leader dell’India, eletti democraticamente, ogni volta hanno preferito capitolare piuttosto che procedere a un confronto sui punti di principio.
La cultura e le istituzioni del paese si sono resi complici di un diffuso senso di separazione dei musulmani dalla cornice nazionale. La diplomazia e l’esercito si sono dimostrati incapaci di stabilizzare l’intera area. Il dramma che si sta vivendo a Mumbai evidenzia il prezzo che indiani e non, colti completamente impreparati, si ritrovano ora a dover pagare.
Tratto da The Wall Street Journal
Traduzione Benedetta Mangano