L’olio di colza come carburante è andato a farsi friggere
02 Dicembre 2008
Era il “lontano” marzo del 2005 quando anche i principali Tg e quotidiani nazionali, riprendendo l’intenso tam tam internettiano già scatenato da mesi su alcuni siti e blog ambientalisti, avevano cominciato a sfornare un servizio dietro l’altro sulla nuova mania degli automobilisti risparmiatori: mettere l’olio di colza al posto del gasolio. Ecologico, perché la sua combustione non rilascia sostanze o residui dannosi nell’ambiente, ma soprattutto economico perché, allora, fare un pieno o anche solo “correggere” il pieno normale con un “cicchetto” di olio vegetale poteva far risparmiare all’automobilista quasi la metà della spesa corrente.
Per alcuni, era stata la scoperta del secolo. Per altri, più addentro alle questioni tecniche sul funzionamento dei motori a gasolio, soltanto la scoperta dell’acqua calda. All’epoca in cui i motori diesel furono inventati, infatti, il propellente che oggi definiamo con il nome di "diesel", dal nome dell’ingegnere franco-tedesco Rudolf Diesel, inventore dell’omonimo motore, non esisteva. I primi propulsori di questo tipo, quindi, erano stati progettati in un’epoca in cui, come combustibile, c’erano a disposizione quasi esclusivamente olii di diretta origine vegetale. Leggasi dunque olio di semi vari, olio di semi di girasole, olio di soia, olio di lino. O, per l’appunto, olio di colza. Gli stessi che, tanto ieri quanto oggi, vengono comunemente utilizzati in cucina. Non è dunque difficile immaginare come anche i motori moderni, compresi quelli di ultima generazione, potessero ancora nutrire qualche genere di affinità con il primigenio propellente offerto con poca spesa da Madre Natura.
Certo, alcuni olii come quello di colza, quello di lino e quello di semi vari possono dare prestazioni migliori. I motori diesel più vecchi, inoltre, i “pre-Euro”, per intendersi meglio, sono più predisposti al cambio di carburante rispetto a quelli moderni, dotati di filtri particolarmente delicati e meno predisposti a bruciare olii vegetali, più vischiosi del gasolio normale. Lo stesso si può dire in merito a pompe, iniettori e centraline, dove l’olio vegetale potrebbe formare depositi e diminuire, a lungo andare, le prestazioni e la “salute” del propulsore. In particolare in inverno, quando la componente grassa dell’olio vegetale, che tende a solidificarsi per via del freddo, può intasare il sistema di alimentazione del combustibile. In più, tre anni fa, c’era lo straordinario vantaggio del prezzo: tra 0,45 e 0,65 euro al litro, esattamente la metà del diesel. Ma, in sostanza, una volta diluito col gasolio “vero”, qualsiasi olio di semi può fare egregiamente la sua parte nello spingere avanti una vettura. Ma c’è un altro “ma”, più grosso di tutti gli altri: al di là di qualsivoglia considerazione tecnica o ecologista, infatti, resta il dato di fatto che oggi in Italia utilizzare olio di semi come carburante è illegale. Sul carburante, qualsiasi carburante, gravano tasse ed accise che verrebbero evase nel caso si utilizzasse olio di semi puro come combustibile per il proprio veicolo. E’ assolutamente legale invece il biodiesel vero e proprio, ma solo se acquistato presso gli impianti che, anno dopo anno, vengono autorizzati dal governo a produrne una certa quantità “defiscalizzata”: nel 2004 questa quantità ammontava, a titolo di esempio, a circa 300mila tonnellate. Una bazzecola, paragonato ai numeri pantagruelici del combustibile tradizionale.
E oggi, cosa succede? L’olio di colza, stra-utilizzato in cucina negli Usa e nei paesi anglosassoni in genere ma assai poco amato dai palati fini dello Stivale, è pressoché introvabile nei normali supermercati, salvo alcuni discount che lo offrono in taniche dai 5 litri in su. C’è l’olio di semi vari, dalle proprietà combustibili assai similari a quelle dell’olio di colza, il cui prezzo arriva però a superare con facilità un euro e dieci cents al litro. Per non parlare degli altri olii, sempre più cari man mano che ne aumenta il pregio. Quanto basta per rendere assolutamente improduttiva dal punto di vista economico una sua eventuale sostituzione al normale gasolio nel serbatoio della propria auto.
A chi fa il pieno al supermercato resta comunque la certezza di avere la coscienza a posto, e di aver contribuito, nonostante la malandrina evasione fiscale, fattivamente ad avere un mondo più pulito, sano ed ecologico, no? Nient’affatto. Perché la corsa sfrenata a biodiesel e biocarburanti di origine vegetale, per lo più cerealicola, ha fatto schizzare alle stelle tanto la domanda di materia prima quanto, come le più basilari leggi dell’economia insegnano, il prezzo. Non solo il grano e il mais, ma anche la soia e il riso, un tempo il cibo più a buon mercato per i paesi del Terzo Mondo, specie per quelli esclusivamente importatori, hanno subito soltanto nell’ultimo anno un incremento di prezzo fino al 50%: secondo la Fao, a fonte di un aumento da 0 a 8,5 miliardi di litri della produzione di biocarburanti tra il 1997 e il 2001 è corrisposto un aumento del costo del cibo addirittura esponenziale, totalmente fuori schema.
Il forte aumento del prezzo del petrolio ha spinto infatti nettamente al rialzo i prezzi agricoli sia perché ha fatto crescere i costi di produzione sia perché ha fatto aumentare la domanda delle colture impiegate per produrre biocombustibili. Food Outlook, il rapporto sulle prospettive alimentari pubblicate lo scorso novembre dalla UN Food and Agriculture Organisation, ha messo in guardia sul fatto che l’effetto combinato di prezzo record del petrolio e di volontà di affrontare le questioni ambientali, potrebbe stimolare nei prossimi anni la domanda di alcune produzioni alimentari, specialmente zucchero, mais, colza, soia, olio di palma ed altre coltivazioni olearie, ma anche dei cereali.
A finire stritolati nell’inarrestabile tritacarne del nuovo mercato sono inevitabilmente coloro i quali oggi si approvvigionano a queste fonti per soddisfare la propria esigenza di cibo, e con un potenziale di spesa fortemente limitato: i paesi poveri, per l’appunto. Anzi, è lo stesso direttore della Fao, Jacques Diouf, a sostenere che le politiche agroenergetiche mondiali hanno cannibalizzato circa 100 milioni di tonnellate di cereali, togliendole al consumo umano. E per fare il pieno al Suv sulle spalle, anzi, sullo stomaco di chi muore di fame, ci va un bel coraggio.