Con questa Cgil Berlusconi può stare tranquillo
15 Dicembre 2008
Nel corso della lunga storia del Pci un incubo ricorrente turbava i sonni del suo gruppo dirigente (la cui selezione era molto severa, al pari della formazione): quello di somigliare al Pcf, il confratello d’Oltralpe. Mentre il ‘partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer’ (era questa la cantilena ritmata che risuonava nelle manifestazioni) era forte, radicato nella società, attento ad evitare il settarismo e ai ceti medi, il Pcf aveva una vocazione minoritaria, ideologica e di stretta osservanza filo-sovietica.
Durante la Quarta Repubblica il Pcf aveva un nutrito gruppo parlamentare, ma era completamente isolato. Fu Mitterrand, nella Quinta Repubblica, a fagocitarlo e a portare alcuni suoi esponenti al governo con incarichi di secondo piano.
Sul piano sindacale anche la Cgil viveva l’incubo di somigliare alla Cgt, la confederazione della sinistra francese. I dirigenti della prima avevano strenuamente difeso, considerandola una ricchezza, la prerogativa di appartenere all’ultima ‘casa comune’ della sinistra italiana, tenendo insieme i lavoratori comunisti e quelli socialisti; e, soprattutto, a partire dagli anni sessanta, aveva seriamente perseguito l’obiettivo della ricostruzione dell’unità sindacale con la Cisl e la Uil, al di fuori di ogni disegno egemonico. Il gruppo dirigente di matrice comunista, anche nei momenti più difficili, aveva sempre evitato – dopo le scissioni del 1948 e del 1950 – di compiere (persino nel corso della vicenda della scala mobile nel biennio 1984-1985) gesti irreparabili tali da mettere in crisi l’unità interna e, con essa, l’unità d’azione interconfederale.
La Cgt era tutto l’opposto. Basti pensare che, nella terminologia corrente, per definire i contratti di lavoro si usava il termine ‘compromesso’, in quanto la ‘mission’ del sindacato era la conquista della società socialista all’interno della quale i lavoratori avrebbero avuto il riconoscimento di quei diritti che mai il capitalismo avrebbe loro concesso.
Per quanti – come chi scrive – hanno attraversato per decenni la storia del sindacalismo italiano, dispiace dover osservare il declino della Cgil, la quale somiglia sempre più alla Cgt di altri tempi ovvero alla propria caricatura deformata. Lo sciopero di venerdì scorso (12 dicembre) è stata la prova provata della trasformazione genetica della gloriosa Confederazione rossa. Con quello sciopero, in un momento tanto difficile, la Cgil è venuta meno alla sua vocazione di grande forza nazionale attenta agli interessi generali del Paese. E non è riuscita neppure a ‘reggere il moccolo’ all’opposizione il cui imbarazzo è apparso evidente. Così, il solo risultato positivo della giornata di lotta è stata la dialettica aperta tra la Cgil e il Pd (con riferimento almeno alla parte più innovativa del suo gruppo dirigente, la sola che interpreta ancora lo spirito originario di quel partito). Per un partito di sinistra che voglia avere una cultura di governo è stato importante sottrarsi dalla sudditanza psicologica nei confronti della Cgil. Del resto l’organizzazione di Epifani è venuta meno ai suoi valori fondativi: con la sua iniziativa ha diviso il movimento sindacale e creato problemi più al Pd che al Governo. Ed è riuscita soltanto a ricevere il plauso delle formazioni comuniste extraparlamentari, ad occupare le piazze (grazie al supporto di tutti i movimenti di protesta, anche di quelli che nulla hanno da spartire con il lavoro); mentre è assai dubbio che lo sciopero abbia svuotato le aziende e gli uffici.
Se questa è l’opposizione sociale Berlusconi può stare tranquillo. Diciamoci la verità: anche se non si può parlare di fallimento dell’iniziativa, lo sciopero non è stato certamente un successo. Al di là della solita guerra sui numeri (che non ci appassiona) è il caso di notare che i soli dati provvisti di una certa attendibilità sono quelli riguardanti l’astensione dal lavoro nel pubblico impiego. Carlo Podda – il segretario della Funzione pubblica che in alleanza con Gianni Rinaldini della Fiom ha indotto la Confederazione a correre l’avventura dell’astensione generale – può contestare fin che vuole i dati del Governo sull’adesione allo sciopero. Ma nella pubblica amministrazione l’astensione non è riuscita come i promotori pronosticavano. Il che è molto significativo, perché i pubblici dipendenti sono gli unici lavoratori che oggi possono stare tranquilli, in quanto non rischiano di perdere il posto di lavoro (è questo invece il timore diffuso nelle aziende private).
La Cgil, sempre più rinchiusa nei settori dei lavoratori garantiti, aveva giocato la carta della rivendicazione salariale, non sottoscrivendo l’accordo di rinnovo perché gli aumenti erano considerati troppo modesti. I dipendenti pubblici hanno capito, invece, quanto fosse sbagliata tale posizione, dal momento che sono tra i pochi lavoratori che, nonostante la gravità della situazione, hanno potuto rinnovare i contratti di lavoro. Il flop del ‘giorno della Cgil’ è testimoniato, poi, dallo scarso interesse che lo sciopero ha raccolto sulla stampa. Come se i giornali e le tv avessero commentato le manie di una vecchia zia, che ha voluto togliersi lo sfizio di correre per l’ultima volta la cavallina. Quanta tristezza, però!